È innegabile che la popolarità di Yoav Gallant fosse un’insidia per il potere cui è ferocemente avvinghiato Benjamin Netanyahu, ma è altrettanto vero che l’ormai silurato ministro della Difesa era interessato a contenderglielo più che a contestarlo. Non mirava alla destituzione di Bibi, ma a destituirlo.
Sui motivi per cui Gallant è stato fatto fuori si sa forse più di quel che hanno detto i due protagonisti, Bibi che evoca le esigenze di guerra mal governabili in un rapporto fiduciario compromesso e l’altro, Gallant, che snocciola i tre punti del dissidio su cui la sua testa sarebbe caduta. È vero che il consenso dei fondamentalisti avversi all’arruolamento degli ultra-ortodossi costituisce un patrimonio preziosismo per Netanyahu, ed è vero che l’argomento è risentito molto fortemente in Israele: ma è a dir poco improbabile che il primo ministro abbia deciso di assumere una iniziativa così grave, e che così gravemente lo espone a tanta protesta, per quel motivo abbastanza ancillare in un momento tanto delicato.

L’inchiesta sul 7 ottobre che Bibi vuole rimandare

È vero, ancora, che la richiesta di Gallant rivolta a ottenere una commissione di inchiesta sul disastro di inefficienza e impreparazione di cui il sistema ha dato prova il 7 ottobre è pericolosissima per il primo ministro, il pavido che non ha chiesto scusa, che non è andato a visitare la gente e i luoghi più devastati del Sabato Nero, e che ha addirittura difeso l’azione degli apparati sottoposti al suo governo giusto per difendere sé stesso. Ma licenziare Gallant non sarebbe servito, e non servirà, a evitare che quell’inchiesta abbia corso e che i responsabili, Bibi in testa, ne siano lambiti.

La questione ostaggi e la guerra ad Hamas

E poi il terzo punto: gli ostaggi e la guerra per liberare loro e smantellare Hamas. È su questo, verosimilmente, che insiste la verità supplementare – evidente ma sottaciuta dai due – del dissidio e della sorte dimissionaria del soccombente Gallant. Aveva detto, in una conferenza stampa immediatamente successiva alla comunicazione del licenziamento, che la liberazione degli ostaggi era imperativa per la stessa sussistenza morale di Israele, e che sarebbe stata e sarebbe possibile a patto di accettare compromessi pesanti. Di quali compromessi dovesse trattarsi, Gallant, in pubblico, nulla ha detto. Ma non è casuale che ancora ieri circolassero notizie secondo cui quei compromessi dovessero implicare la permanenza al potere di Hamas a Gaza, insomma che il recupero degli ostaggi valesse un atteggiamento recessivo di Israele a fronte della pretesa mai dismessa dagli autori e dai mandanti dei massacri di un anno fa: cioè di continuare a esercitare il proprio potere sulla Striscia.

Hamas non vuole negoziare

Se questo fosse il quadro vero della vicenda, e il vero motivo dell’allontanamento di Yoav Gallant, allora l’avventatezza attribuita alla decisione di Netanyahu cederebbe il posto a una spiegazione molto più implicante e assai meno provvisoria. Perché l’ultimo rifiuto opposto da Hamas a un’ipotesi di accordo (è dell’altro giorno), la quale prevedeva una decina di giorni di cessate il fuoco e la liberazione di quattro ostaggi contro quella di 100 terroristi, ha reso chiaro a tutti che quel che rimane delle dirigenze e dell’esercito di Hamas non ha nessuna intenzione di arrendersi, nessuna intenzione di rendersi disponibile a uno scenario sgombro della propria presenza. E questa è una consapevolezza ormai diffusa, anche presso i tanti che contestano Netanyahu da mesi e anche tra quelli che l’altra sera, alla notizia del siluramento di Gallant, riempivano rumorosamente le strade accusando il primo ministro dell’ultimo, oltraggioso sproposito.
C’è caso che anche quei contestatori – che con ottime ragioni non hanno mai avuto e continuano a non avere fiducia in Netanyahu, che lo ritengono inadatto e che sentono come un insulto la sua permanenza al potere – capiscano che la guerra, che deve finire, non può finire senza la definitiva distruzione di Hamas.