L'establishment in ginocchio davanti al governo
Galli della Loggia lacchè della Meloni, il Corriere si piega alla premier
L’onda nera si abbatte anche sui grandi dirigenti dei ministeri con l’ordine di un repulisti generale. L’essenza del fenomeno Meloni diventa così già chiaramente decifrabile. Alla nostalgia canaglia di antiche mitologie si aggiunge l’odore dello spoils system per piazzare gli esclusi nel sottogoverno. È la cultura acquisitiva del potere che accompagna chi si sente un “underdog” e conquista vorace la stanza dei bottoni per piazzare bandiere riconoscibili.
Ogni sfavorita di successo tende a creare propri favoriti. Nella sua scalata ai centri del potere, c’è ben altro che la metafisica della “novità” su cui ricama il Corriere della sera. Lo storico Galli della Loggia, stufo dei “soliti noti”, si incanta fino allo sfinimento davanti alla “figura minuta dai capelli biondi” che, con la sua “forte leadership”, domina il governo e rende la penisola “percorsa da un brivido d’emozione”. Con richiami degni di Diva e Donna, la spiegazione dell’esperienza della destra radicale viene ricercata nella nuda corporeità di una «giovane donna, per giunta madre di una bella bambina, moderna e spigliata quanto basta per avere un compagno anziché un marito». Le immagini dell’intimità, proprie del rotocalco, ormai sostituiscono le categorie storiografiche. E così, grazie a un concentrato di “volontà, carattere, grinta”, la patriota potrà finalmente “evitare di esaurirsi tra le mediazioni e i compromessi” per costruire ciò che “l’Italia si aspetta”. Schumpeter non abita a via Solferino, dove parlano di un’Italia raccolta organicamente attorno a un “capo” (“non più il capo di una parte ma di tutto un Paese”), di un popolo come un ente unitario.
Lo studioso austriaco chiariva, invece, che non esiste una comunità omogenea e “il bene comune avrà significati diversi per individui e gruppi diversi”. La penna di Galli della Loggia, ancora stordita per il fascino che dalla bionda Meloni – con “la sua immagine personale di tenacia e d’indipendenza di giudizio condita d’ironia”, “la sua naturale simpatia”, “il suo temperamento”, “il suo intuito”, “la sua buona stella” – promana, non offre gli strumenti per comprendere la destra. Costituisce, piuttosto, un utile termometro degli orientamenti conformistici che la coalizione al potere già produce nelle mentalità di chi dovrebbe invece analizzarla con distacco. Non c’è bisogno di essere un “adulatore”, come il presidente del Senato usava appellare quanti usassero nei suoi confronti il famoso epiteto, per rilevare che la leadership di Fratelli d’Italia, e dunque le cariche di governo e istituzionali più importanti, presentano un legame forte con l’ideologia del post-fascismo. Questo dato, non solo biografico ma culturale, non significa che sia in costruzione una repubblica autoritaria. Si è creata, nel pieno rispetto delle regole competitive, una contrarietà evidente tra la costituzione-valore e il sistema politico ora dominante.
La Russa che festeggia l’anniversario della fondazione del Msi non crea scandalo alcuno rispetto alle sue legittime e ben note credenze. E chiedere a Isabella Rauti di dimenticare storie e memorie (anche di famiglia) è una pretesa vana. Che i vincitori rimarchino il salto qualitativo del 25 settembre è un affronto prevedibile in quanti si rifugiano nel culto di un’anima nera condannata sino agli anni 90 ai margini e all’irrilevanza. Considerata la cesura storica che il libero voto ha prodotto, lo scandalo non si sana certo con le richieste di dimissioni di chi dallo scranno di Palazzo Madama rimpiange la fiamma. Giorgia Meloni che rivisita la storia dei partiti, per iscrivere d’ufficio il Msi alla “storia democratica”, mostra che il problema delle origini è politicamente rilevante. Annacquare la vicenda missina, per renderla compatibile con una consuetudine repubblicana e costituzionale, è una verità di Stato che fa comodo anche dopo l’usura del paradigma antifascista, ma urta con la verità storica. Il partito di Almirante, per convivere con l’antinomia di essere “fascisti in democrazia”, sviluppa una doppia anima: una nostalgica e anti-sistema, aperta persino alle pratiche eversive di gruppi extraparlamentari, servizi deviati e potentati militari, e una istituzionale, attenta alle procedure di legittimazione, pronta agli inserimenti nel gioco parlamentare, fino a concorrere all’elezione di presidenti della Repubblica.
Il problema più rilevante non è che rispuntino certe pulsioni identitarie nei freschi vincitori post-missini, ma che i partiti che si reputano costituzionali si siano lasciati travolgere senza un’efficace resistenza. La leadership di Meloni non ha mai nascosto il suo vero volto. Sofia Ventura lo riassume in un saggio recentemente uscito per la Fondazione Ebert: Meloni coltiva “la visione di una società illiberale e organicista”, con tratti tipici di “una lettura reazionaria dei diritti dell’individuo”, con “una nozione essenzialista ed etnocentrica di nazione”, con “una giustapposizione manichea di popolo ed élite e un’interpretazione complottista della realtà”. Con questa cultura che si fa governo, il pericolo non è certo costituito dalla ricostruzione del regime fascista. Più concreto è il rischio di un restringimento dei profili garantisti, democratici e sociali della Repubblica. In nome della battaglia contro la “sostituzione etnica” islamica, rivivono ancestrali e inquietanti motivi spiritualistici a sfondo etnico-razziale. La rivendicazione della sovranità nazionale contro “l’occupazione franco-tedesca dell’Italia” rischia di recuperare simbologie antiche che finiscono per danneggiare interessi vitali del paese.
La considerazione dei principi dello Stato di diritto richiesti dall’appartenenza europea come l’esibizione di “una sbarra di ferro contro il popolo polacco e ungherese” può inaugurare, anche in Italia, una ubriacatura presidenzialistica per le autocrazie elettive. Che dinanzi ad una destra radicale con simili velleità restauratrici le forze democratiche abbiano firmato la resa preventiva è il vero scandalo politico. Le dimissioni chieste ai vincitori sono un segno di fragilità, meglio sarebbe esigere qualche segnale di rinascita ai vinti. La ricostruzione di un fronte democratico costituzionale non può essere fatta a bocce ferme. Le tre leadership che a settembre hanno deciso di marciare in una direzione ostinata e contraria, consegnando già prima del conteggio dei voti le chiavi del potere alla destra radicale, costituiscono un oggettivo impedimento alla ripresa di un’iniziativa politica unitaria nel centrosinistra. Il gioco a perdere per assumere la guida del deserto che rimane è una macabra esercitazione.
Il Partito democratico, che ha rimosso Letta dalla carica, ha compiuto il primo passo indispensabile per aprire una nuova stagione. Non si cambia politica senza una cesura nella guida del partito. Gli altri due responsabili del crollo storico-valoriale della Repubblica non possono voltarsi dall’altra parte, facendo finta di nulla o, addirittura, presentandosi come i non-sconfitti della passata contesa elettorale. Conte, che ha scelto come professione quella di far perdere ovunque il Pd, e Calenda, che non ha la stessa duttilità tattica di Renzi in tema di alleanze, ancora adesso passano i giorni ad infilzarsi e ad innalzare veti reciproci. Così potrebbero essere percepiti come un formidabile ostacolo da quanti credono in un campo progressista unitario. Non basta che uno solo dei tre tenori stonati abbia lasciato la scena. Se gli altri due galli continuano a beccarsi, tutto continuerà come prima: in fuga verso la sconfitta. Solo un ripensamento di tutte e tre le leadership, colpevoli della umiliante sconfitta di settembre, può forse sbloccare le pregiudiziali, i rancori, e aprire interessanti scenari.
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