Anche per i figli di genitori dello stesso sesso sulla carta di identità resterà la dicitura “padre” e “madre”. La decisone è stata confermata da Viminale e il ministero della Famiglia, nonostante la sentenza del tribunale di Roma che qualche mese fa aveva dato ragione a due mamme che volevano cambiare la dicitura in “genitore“. Il giudice aveva invitato contestualmente il ministero a correggere il software per garantire l’inclusione dei genitori gay. Ma l’esecutivo non ha voluto sentir ragioni: si chiamano “madre” e “padre” anche se sono due mamme o due papà.

Nel 2019 un decreto del ministero dell’Interno allora retto da Matteo Salvini ha stabilito che sui documenti dei minori ci fosse la dicitura “padre” e “madre“. La recente sentenza del Tribunale di Roma aveva aperto uno spiraglio di speranza per le numerose coppie dello stesso sesso e per i loro figli che gravitano in una specie di limbo non meglio definito da norme e che apre a numerose criticità per il benessere dei bambini e delle loro famiglie come due mamme hanno raccontato al Riformista.

Per Eugenia Roccella, titolare del dicastero della Famiglia e delle Pari opportunità nel governo Meloni, “si è fatto tanto rumore per quella decisione – dice Roccella – ma si tratta di una sentenza individuale, dunque vale per la singola coppia che ha fatto ricorso”, ha detto intervistata da Repubblica. E ha confermato che sulle carte di identità e sui documenti “rimarrà scritto madre e padre”. E le coppie formate da due mamme o due papà? “Possono sempre fare ricorso”.

Una procedura legale non semplice, dall’esito incerto, lunga e soprattutto costosa. Alexander Schuster, avvocato in decine di cause per conto di famiglie Lgbt, ha spiegato a Repubblica che per cause di questo tipo le coppie devono sborsare dai 6mila ai 12mila euro. “La strategia di Roccella – sostiene Schuster – è intelligente, perché in questo modo tre quarti delle coppie omogenitoriali lasceranno perdere”.

Natascia Maesi, presidente di Arcigay, spiega che la via del ricorso è difficilmente percorribile: “È un percorso complicato. Soprattutto, sono ricorsi molto dispendiosi. Non tutti possono permetterselo. Il rischio è che il riconoscimento diventi un privilegio per poche famiglie benestanti. Ma tutte queste famiglie esistono e bisogna farci i conti, proprio per tutelare in primo luogo i minori. Non è il dna quello che stabilisce chi è un genitore, ma è la responsabilità di crescere e amare i propri figli. Anche la scienza ci ha permesso di separare la capacità di procreare dalla funzione educativa dell’essere genitori. E in Italia la procreazione medicalmente assistita, compresa quella eterologa, è accessibile. Se il governo imbocca questa strada dovrà spiegarlo all’Europa”.

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Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. È autrice anche di documentari tra cui “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.