Se tu e io ci conoscessimo bene, con la giusta confidenza, e – conversando davanti a un buon caffè – ti chiedessi cosa ti ha reso la persona che sei oggi, sono abbastanza sicuro che mi racconteresti di due o tre situazioni difficili, momenti critici della tua vita. Mi parleresti di come l’aver affrontato, spesso da solo, questi ostacoli ti abbia reso più forte, più capace e ti abbia fornito la chiave di lettura per affrontare la vita. Senza girarci troppo intorno, entrambi converremmo sul fatto che le difficoltà sono ciò che ci hanno reso le (fantastiche) persone che siamo oggi.

Soddisfatti di questa scoperta, cambiamo argomento. La conversazione si sposta inevitabilmente sui nostri figli. E anche qui conveniamo, senza fare troppa fatica, su un punto che ci unisce: tutto quello che stiamo facendo per sostenerli e supportarli affinché non abbiano problemi o difficoltà. Ci scambiamo qualche buon consiglio su come farlo sempre meglio, finiamo il caffè e ci salutiamo. Andando via, entrambi avvertiamo quel piccolo disagio che nasce da quella contraddizione. Siamo ciò che siamo grazie alle difficoltà che abbiamo affrontato da soli, ma non vogliamo che i nostri figli ne affrontino. Poi una telefonata ci distrae abbastanza da non pensarci più e quella contraddizione scivola via, forse prima che il sapore del caffè svanisca dalla nostra bocca.

Che cos’è l’helicopter parenting

Negli ultimi anni si è diffuso il termine “helicopter parenting”, per descrivere un modello di genitorialità caratterizzato da un coinvolgimento eccessivo nella vita dei figli. Ho scritto “eccessivo”, così penserete subito che non vi riguardi, ma che potrebbe sicuramente coinvolgere alcune coppie di genitori di amici dei vostri figli. Così continuerete a leggere. Nato negli Stati Uniti, il termine richiama l’immagine di un elicottero che sorvola costantemente, pronto a intervenire al minimo segnale di difficoltà. Questi genitori “elicottero” cercano di prevenire ogni ostacolo, proteggendo i figli da qualsiasi rischio. Sebbene l’intento sia nobile, l’effetto può essere controproducente: i bambini crescono dipendenti e mancano di autonomia.

La genitorialità iperprotettiva è spesso alimentata dall’ansia dei genitori. Temiamo che i figli possano soffrire o fallire, e così interveniamo continuamente. Proiettiamo su di loro il dolore che abbiamo provato in situazioni simili e vogliamo, a tutti i costi, evitare loro quel dolore. Ma questa ansia si trasmette ai figli, creando un ciclo in cui entrambi viviamo nella paura del fallimento. Ricerche evidenziano che l’ansia dei genitori influenza direttamente quella dei figli. I bambini cresciuti in ambienti iperprotettivi hanno livelli più elevati di ansia e depressione, poiché non sviluppano strategie per affrontare le sfide in modo indipendente. Privare i bambini dell’esperienza del rischio limita la loro capacità di sviluppare resilienza e competenze fondamentali. Il gioco rischioso è essenziale per imparare a gestire il pericolo e acquisire consapevolezza dei propri limiti. So che oggi solo affiancare la parola “gioco” a “rischioso” mi attirerà tantissime critiche, ma questa è una verità vecchia quanto la storia dell’uomo.

L’eccesso di controllo

Studi dimostrano che l’iperprotezione genitoriale può portare difficoltà nelle relazioni sociali e scarsa autonomia. I figli potrebbero avere difficoltà ad adattarsi a nuove situazioni, come l’università o il lavoro, dove è richiesta indipendenza. Sebbene l’intenzione sia proteggere, l’eccesso di controllo può ostacolare la crescita dei nostri figli. Un approccio equilibrato, che incoraggi l’autonomia e permetta di affrontare rischi gestibili, favorisce lo sviluppo di individui resilienti. Lasciamo che i nostri figli cadano e si rialzino, che affrontino le sfide e imparino dai propri errori. Solo così potranno diventare adulti sicuri, capaci di navigare nel mondo con fiducia. Le difficoltà che abbiamo superato ci hanno reso ciò che siamo. Perché negare ai nostri figli la stessa opportunità per puro egoismo?