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Gestazione per altri, quei 48 nuovi reati introdotti dalla destra. L’isteria penale del proibire
Utero in affitto, maternità surrogata, gestazione per altri, turismo procreativo. Sono molte le parole che si usano per descrivere, tra i modi di nascere, quello che avviene grazie all’intercessione di una donna che non sarà madre del figlio che partorirà. Nessuna di esse è neutra. Anzi, questa straordinaria varietà lessicale cela in sé un “ordigno etico” ben preciso scagliato, per lo più, contro questa pratica. Fa eccezione il termine “gestazione per altri” che evoca, almeno lessicalmente, la possibilità di un fine solidaristico, di uno scambio equo, di un incontro di volontà senza coartazione.
Quale che sia la locuzione prescelta, la dissociazione tra gestazione e genitorialità mediante il ricorso ad un corpo altro – già punita in Italia dall’art. 12 della l. n. 40 del 2004 – viene oggi elevata al rango di “reato universale”.
Dal 16 ottobre, tutte le coppie che si recheranno all’estero, anche nei paesi in cui è lecito, per dare alla luce un figlio in queste forme, saranno punite secondo la legge italiana. Un monito per chi, non certo con leggerezza, affronta il lungo, doloroso, faticoso e costoso percorso per la realizzazione di un desiderio: la legge italiana vi seguirà e vi perseguirà ovunque vi rechiate. Fuori dall’eco degli slogan e dalle questioni etiche e politiche che suscita la questione, occorre provare a fare un po’ di chiarezza anche sul piano strettamente tecnico.
Anzitutto cosa si intende per reato universale? A questa categoria appartengono, per esempio, reati come il genocidio, la tratta di esseri umani, la tortura, i crimini contro l’umanità. Reati la cui gravità è riconosciuta universalmente dalla comunità internazionale. Al contrario, il reato di gestazione per altri intanto non è universalmente riconosciuto come illecito, visto che in molti paesi la pratica è assolutamente consentita. Ma, altra incoerenza, non è neppure un reato grave. Del resto, bocciato – vivaddio – l’emendamento della Lega sull’inasprimento sanzionatorio, è punito, tanto se consumato in Italia, tanto se consumato all’estero, al massimo con 2 anni di reclusione.
Sebbene la vulgata abbia etichettato questa ennesima prodezza come “reato universale” che, grazie alla nuova legge, sarà punito anche su Marte, in realtà, udite udite, i rischi di incriminazione erano possibili anche prima, come dimostrano alcune (poche) sentenze della Cassazione che si sono occupate del caso. Questo perché il nostro codice penale (art. 9, comma 2) prevede che quando il cittadino commette all’estero un reato non grave, può essere punito in Italia a richiesta del Ministro della Giustizia. Dunque, la punizione o meno della coppia che si recava all’estero per avere un figlio ricorrendo alla Gpa, dipendeva, ieri, da una scelta politica affidata all’Esecutivo. Non solo: è opinione diffusa, anche se controversa, che per punire un cittadino che ha commesso all’estero un reato sia necessaria la doppia incriminazione. Cioè occorre che quel fatto sia previsto come reato anche nello Stato straniero. È una regola non scritta, potremmo dire implicita, divenuta però una specie di sentire comune. Per questo, nel 2016, la Cassazione ha assolto una coppia di genitori che si era recata in Ucraina, confidando, incolpevolmente, sul fatto che la liceità all’estero fosse sufficiente a ritenere non punibile anche in Italia quella condotta.
Allora, vien da chiedersi, a cosa è servito tanto rumore? Anzitutto a disincentivare ulteriormente pratiche che già prima, reato universale o meno, incontravano le tenaglie di una burocrazia feroce legittimata anche da una giurisprudenza restia a riconoscere lo status di genitore a quello c.d. intenzionale. E a far credere che si potrà punire meglio, senza il passaggio alla richiesta del Ministro della Giustizia, dimenticando (o facendo finta di dimenticare) la difficoltà di raccogliere prove (nonostante il monito della Ministra Roccella ai medici di denunciare sospetti di maternità surrogate) nei paesi in cui tale pratica è lecita.
Ma, ahinoi, tanto rumore non è per nulla, perché qualcosa, comunque, svela. Va detto, infatti, che il favore per l’introduzione del reato universale di gestazione per altri ha riscosso sostegni trasversali, provenienti dai banchi opposti delle aule parlamentari. Una vox media, una bandiera buona per ogni stagione e per ogni causa a prescindere, insomma, da quale tessera di partito si porti in tasca. Punire tutte le coppie in qualsiasi parte del mondo è sì un vessillo securitario figlio della sbornia giustizialista (per citare E. Antonucci) di questo Governo – che, non dimentichiamolo, ha introdotto ben 48 nuovi reati in soli due anni – ma è obiettivo anche di chi ritiene che il ricorso allo strumento penale sia l’unica strada per tutelare le donne (basti qui ricordare l’appello “stop surrogacy now” rilanciato in Italia da Snoq/libere).
Una tale trasversalità di consensi è, forse, il segno più tangibile della resa della politica tutta di fronte a questioni, come questa, in cui il ricorso allo strumento penale finisce, da un lato, per silenziare dibattiti necessari e doverosi, che chiamano in causa dilemmi laceranti, di ordine culturale, filosofico, bioetico e, dall’altro, per ignorare la vastità delle opzioni in cui si esprime la vita, in cui germinano fragilità (spesso ricorrono alla Gpa donne che hanno subìto l’asportazione dell’utero), intrecci di corpi e di biografie, profondi mutamenti sociali destinati a rovesciare gli schemi, ormai anacronistici, della c.d. famiglia tradizionale.
Quando si maneggia la materia complessa del venire al mondo, occorre, invece, un dibattere laico, libero da inquietudini emotive, capace di disvelare la straordinaria eterogeneità delle storie implicate, non tutte riconducibili alla tradizione biblica di Abramo e Sara e allo sfruttamento della schiava Agar o al racconto dell’ancella di Margaret Atwood. Quel che si annida dietro l’isteria penale del proibire è, al fondo, l’impossibilità di accettare la sovranità delle donne sul proprio corpo, l’autodeterminazione sessuale, espressa anche dalla libera scelta di portare avanti una gravidanza per altri/e. Un assolutismo etico che nega persino l’ovvio: e cioè che l’ordine simbolico della madre va ben al di là determinismo biologico (L. Rocchetti, Davvero il diritto penale salverà le donne? Tra surrogazione di maternità e Gpa, in Crs, 4.4.2023).
Che ne è delle donne che decidono, liberamente, scientemente, consapevolmente e responsabilmente di portare avanti una gravidanza per altri/e? Vengono estromesse dal dibattito, schiacciate da un’ipertrofia protettiva che riduce tutte, sfruttate e consenzienti, entro le strettoie della categoria di vittime. A questa logica risponde anche la recente direttiva (UE) 2024/1712 dello scorso 13 giugno che ha inserito la surrogacy tra le forme di tratta di esseri umani. Con un distinguo, non da poco: in quel contesto si è messo l’accento sullo sfruttamento della maternità surrogata.
E che ne è dei bambini e delle bambine? “Sono errori da non ripetere” (come ben ha scritto Matteo Uslenghi, raccontando al Post la sua storia di padre di due gemelle nate, negli Stati uniti, grazie al sostegno di Wendy). Più brutalmente, sono corpo del reato.
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