Il racconto del segretario del partito socialista
Giacomo Matteotti, il riformista radicale volontario della morte
![Giacomo Matteotti Giacomo Matteotti](https://www.ilriformista.it/wp-content/uploads/2021/05/giacomo-matteotti.jpg)
Una vita come un romanzo, seppur con esito tragico in questo caso. Non è un modo di dire ma è la la modalità narrativa che Riccardo Nencini, senatore socialista nel gruppo di Italia Viva, ha scelto per raccontare la vita pubblica e privata di Giacomo Matteotti: Solo, Mondadori, p. 619, euro 22. Ed è una scelta che, alla prova dei fatti, risulta efficace. Lo è perché ci fa entrare nella psicologia e nel carattere dell’uomo, attraverso la sua semplice vita quotidiana e i suoi affetti e passioni, ma anche perché ci immerge come d’incanto in anni tumultuosi: insieme lontani e vicini (il “noi diviso” dell’Italia sembra essere sempre lo stesso), quelli che vanno dal 1914 al 1924, dai prodromi della Grande Guerra (Matteotti era contro l’intervento) all’affermarsi come regime del fascismo.
Perché, anche se la storia raccontata da Nencini si ferma ovviamente a quel 10 giugno dell’agguato fascista al deputato di Fratta Polesine, fu proprio da quell’omicidio, che vasta indignazione e commozione suscitò in tutto il Paese, che gli avvenimenti subirono una rapida e incontrollabile accelerazione. Approdando infine al discorso che Mussolini, il 3 gennaio del 1925, fece alla Camera assumendosi la “responsabilità politica, morale e storica” di quanto accaduto; e alla successiva e definitiva soppressione delle libertà fondamentali garantite dallo Stato liberale. Prima che il romanzo si dipani cronologicamente, Nencini fa un breve prologo; aula di Montecitorio, 30 maggio 1924, il giorno in cui, appena insediatosi il nuovo governo, Matteotti pronuncia un duro e circostanziato discorso sui brogli elettorali che, diffusi un po’ ovunque nel Paese, avevano contrassegnato le elezioni de 6 aprile. È un un discorso duro, circostanziato, pieno di dettagli; interrotto continuamente da fischi e urla; e da un nervosismo mal celato di un Mussolini che ascolta con finta indifferenza.
Da quella tornata, anche grazie alla legge elettorale fortemente maggioritaria approvata nel novembre 1923 (la cosiddetta “Legge Acerbo”), era uscita vittoriosa la Lista Nazionale (il “listone”) guidata dal Duce e composta non solo da fascisti ma anche da tutti coloro, pur di altra formazione, che si erano detti disposti a “collaborare” con lui.
Questo discorso, con cui Matteotti segnò probabilmente la sua fine (“il volontario della morte” lo definì Gobetti), fu uno degli ultimi atti di un atteggiamento che non aveva fatto mai concessioni al movimento di Mussolini. E che anzi si era battuto pervicacemente, all’interno del Partito Socialista Unitario, di cui era segretario, contro le tendenze collaborazioniste che spesso emergevano.
Matteotti conosceva molto bene Mussolini, aveva militato con lui quando il futuro Duce era socialista: entrambi erano figli di una stessa temperie culturale, che però interpretavano in modo del tutto diverso. L’influsso di Sorel e Bergson, quindi l’insistere sull’attivismo e sulla priorità dell’azione, in Mussolini assumeva una spregiudicata curvatura irrazionalistica e nichilistica, che in qualche modo voleva servirsi ecletticamente di un po’ tutte le idee sul campo; mentre in Matteotti si esplicitava in un fastidio per le dispute ideologiche e i dottrinarismi e in un concentrarsi sui problemi concreti delle classi lavoratrici. Da qui la sua straordinaria capacità amministrativa, che gli altri esponenti socialisti, tutti impegnati sui “massimi sistemi” non avevano (la capacità ad esempio di leggere un bilancio e di intervenire con cognizione di causa quando si discuteva quello dello Stato); e da qui anche la sua attenzione ai sindacati, ai corpi intermedi, e alle rivendicazioni salariali che erano per lui il compito impellente che avevano i socialisti.
Era sicuramente un riformista, da questo punto di vista, anche se poteva sembrare spesso un radicale per l’intransigenza con cui concepiva le sue idee e combatteva ogni tipo di “cedimento opportunistico”. Era, nello stesso tempo, fra i leader socialisti, il più aperto al mondo (aveva rapporti e viaggiava spesso in tutta Europa) e il più attento al proprio territorio (il Polesine con la sua povertà e le lotte agrarie). Ed era un’altra contraddizione. Come lo era il suo essere di famiglia borghese e benestante, il suo essere intellettuale, ma pure attento e compartecipe ai problemi della povera gente, con cui parlava in dialetto.
Tutto questo viene ben tratteggiato nel libro di Nencini, così pure il suo amore per Velia, la donna che sposò e poi ne avrebbe difeso per tanti anni la memoria. Per chi studia gli anni immediatamente seguenti alla prima guerra mondiale, l’impressione è di un intreccio inestricabile di passioni e idee, da cui deriva l’impossibilità di separare con un taglio netto le vicende ma anche le idee dei protagonisti. L’ideologia, in tutte le parti politiche, la faceva da padrona, ottenebrava le menti. Matteotti fa in qualche modo eccezione per coerenza e capacità di visione. Forse fu la capacità di stare coi piedi per terra la cifra ultima del suo riformismo e anche della sua intransigenza antifascista. Il suo radicalismo riformista è molto diverso dal riformismo tout court di Turati. Lo strano impasto di “virtù conservatrici” e “sovversivismo”, per dirla sempre con Gobetti, suscita indubbiamente interesse. E anche un certo fascino intellettuale.
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