Il lavoro in Europa, ma non solo, si trova ad affrontare un cambio di paradigma. Se, fino a non molto tempo fa, è sempre stato creato e gestito da esseri umani (anche se attraverso le macchine) oggi assistiamo ad una rivoluzione che porta con sé molte possibilità ma anche molti rischi. Lo sviluppo tecnologico, ed in particolare lo sviluppo dell’intelligenza artificiale e degli algoritmi delle app sta portando cambiamenti enormi non solo di tipo pratico ma anche ontologico. Ripensare il mondo del lavoro è cruciale per assicurare uno sviluppo sostenibile ed etico a questo elemento fondamentale dell’esistenza dell’essere umano.
Da un lato assistiamo ad una intelligenza artificiale che pian piano sostituirà molti lavoratori in molti campi, dall’altro già assistiamo all’espansione della cosiddetta GIG Economy: una economia intermediata da app basate su algoritmi. Essa è una realtà in crescita in tutto il mondo, caratterizzata da lavoratori indipendenti che offrono servizi su base temporanea e flessibile tramite piattaforme digitali. Questo nuovo modello di lavoro ha portato a nuove opportunità economiche, ma anche a nuove sfide in termini di equità e protezione dei lavoratori. In risposta a questa evoluzione, l’Unione Europea (UE) ha avviato regolamentazioni specifiche per garantire condizioni di equità e sicurezza per tutti i lavoratori coinvolti.

Il punto chiave del cambiamento è nella nostra concezione dell’impiego. L’introduzione di questi meccanismi tecnologici ingenera una possibilità di valutazione della nostra attività lavorativa. Se prima era scontato che fosse l’essere umano a svolgere determinati lavori, ora possiamo dire: è un lavoro da macchina/intelligenza artificiale. Esistono lavori di serie A e lavori di serie B, quelli delle macchine. La GIG economy dal canto suo genera una maggiore fluidità ma anche una minore trasparenza sulle condizioni di lavoro. L’algoritmo embedded nell’application che, ad esempio, nel caso del delivery, decide chi farà il delivery, difetta spesso di trasparenza. Questo porta ad una serie di considerazioni sia giuridiche ma anche etiche. Come sceglie la app i lavoratori che faranno quel serivizio? Come controllare l’algoritmo?
Ciò a cui stiamo assistendo è complesso e va analizzato su piani diversi. Su un piano ontologico, essendo anche il lavoro una proiezione dell’essere umano, assistiamo ad una evoluzione che introduce la categoria “lavoro da macchine”, su un altro piano, invece, assistiamo ad un fenomeno (la GIG economy) che apparentemente aumenta la libertà del lavoratore ma non garantisce i diritti minimi in termini anche di trasparenza. Vediamo così da un lato la nascita di un problema di interpretazione del lavoro e della nostra essenza: chi fa lavori da macchine in cosa si distingue dalle macchine? In che termini è garantito rispetto ad esse? Dall’altro assistiamo allo sviluppo di una economia che favorisce lavori non garantiti totalmente da diritti minimi.

La situazione va sbrogliata innanzitutto a livello filosofico e poi giuridico. Le domande centrali a cui bisogna rispondere sono: cos’è il lavoro oggi? Perché il lavoro? Siamo in un grande momento di transizione in molti campi dell’esistenza umana ed è necessario ridefinire, riformare, molti dei paradigmi su cui la società si fonda. Per far questo la riflessione e poi il diritto sono essenziali. L’AI e l’algoritmo sono in se già delle scelte valutative del reale, delle scelte etiche. Il “come” del lavoro del futuro dipende da noi, perché l’algoritmo è una scelta etica assoluta (che si rifà al linguaggio 1,0) embedded in un codice di programma. Sia i lavori delle macchine sia i lavori dell’uomo intermediati dalle macchine dipenderanno da scelte algoretiche in cui la riflessione sia filosofica sia giuridica dovranno comprendere il fenomeno che ci troviamo ad affrontare.
L’UE a livello culturale potrà contribuire immensamente allo sviluppo di questa riflessione e alla sua messa in pratica. Dovrà però forse anch’essa cambiare paradigma per cogliere a pieno la sfida che ci troviamo davanti. Passare dalla concezione cartesiana del “penso dunque sono” a quella Husserliana (della crisi delle scienze moderne) dell’ermeneutica della realtà e quindi della onto-fenomenologia: sono dunque penso. Il rischio è cadere in un volontarismo sterile cercando di imporre paradigmi non più esistenti ad una realtà che invece ci interpella. Si perderebbero così non solo opportunità enormi di sviluppo ma si avrebbero anche rischi di compressione del senso del lavoro e dei diritti.

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Professore universitario, romano, classe 1984. È laureato in Giurisprudenza ed è dottore di ricerca in filosofia del diritto, politica e morale. Ha lavorato per l’UE e per lo European Patent Office. Attualmente svolge attività di consulenza come Policy Officer per le policies europee. Appassionato di filosofia, cerca, nei suoi scritti, di ridare un respiro esistenziale alla quotidianità e alle sfide politiche