Il Mito non conosce la caducità terrena, sa fluttuare in quella dimensione che va oltre e nell’oltre incontra la sua ragione d’essere. Vive in una dimensione atemporale, guadagnata non solo attraverso l’eco fragorosa di imprese memorabili ma anche grazie alla magnificenza morale che racchiude l’immortalità dell’esempio. Gigi Riva appartiene a questa esclusiva galleria di protagonisti destinati a rimanere eterni, irrinunciabili parametri di riferimento per chi ha avuto il privilegio di apprezzarli e di essere permeato della loro aura magica.

La triste notizia della sua scomparsa è arrivata improvvisa, fulminea, proprio come le traiettorie imparabili su cui ha costruito la sua fama di attaccante di razza. È stato il bomber dei sogni del Cagliari, che ha preso per mano e trascinato alla conquista di uno storico scudetto nel 1970, con l’11 stampato sulle spalle, due volte 1, quasi a ribadirne l’unicità e la leadership innata. Tre volte capocannoniere del campionato e bandiera assoluta, Riva rimane il simbolo di un popolo, di un’isola intera che l’ha consacrato icona laica da venerare, il condottiero eroico capace di scompaginare le gerarchie sedimentate e di riscrivere la storia. Il film della carriera è la pellicola di un calcio che non conosce l’oblio, bello e vero come il nostro eroe che ha saputo nobilitarlo.

Sono i numeri e le reti segnate a raccontarne l’eccellenza agonistica, tra cui il primato che lo vuole ancora il miglior realizzatore di sempre della Nazionale con 35 centri in 42 presenze e le tante pagine memorabili, griffate con il suo inconfondibile autografo d’autore. Già, la Nazionale, l’altro capitolo speciale della sua vita, insieme al Cagliari l’inestinguibile grido d’orgoglio, il richiamo ancestrale, l’estensione dei sogni più reconditi. Con la maglia azzurra tatuata a pelle e il tricolore cucito sul petto ci ha insegnato il significato del senso di appartenenza e come interpretarlo con stile e rigore, declinandolo nelle sue diverse sfumature: dal titolo Europeo del ’68 al secondo posto iridato di Messico ’70, fino al Mondiale vinto da dirigente nel 2006, la sua è stata un’epopea fantastica, raccontata con il linguaggio di quegli ideali intangibili che non ha mai tradito, anteponendoli a ogni altro interesse.

Non si è piegato ai compromessi, ha dato voce alle sue più intime convinzioni senza preoccuparsi di scalare montagne impervie, fedele alle idee che lo hanno reso grande. Il sibilo vincente del suo sinistro fatato era l’espressione più eloquente di uno stile essenziale e mai banale. Gigi parlava con lo sguardo, la genuinità dei gesti e l’umiltà dei pensieri. Lo sanno gli ex compagni di squadra, i tecnici, i dirigenti, i calciatori che lo hanno avuto come guida. Quando parlava però sapeva lasciare il segno. Ricordo le sue parole, centellinate con cura nell’ultima serata in cui si è concesso l’ovazione della gente. Quelle frasi di affetto nei miei confronti, enunciate con un filo di voce, quasi con discrezione, hanno ancora l’effetto di emozionanti fendenti nell’anima.

Era la sua notte, quella del Collare d’Oro, la massima onorificenza sportiva che il Coni gli aveva attribuito e che lui non aveva ancora ritirato. Sono arrivato a Cagliari per consegnargli il riconoscimento sul campo di gioco, davanti ai suoi tifosi. Ho compreso la profondità del legame infinito che lo legherà per sempre alla Sardegna e alla gente, toccando con mano la riconoscenza di chi si è aggrappato alla grandezza di Riva per scalare la vetta, riuscendo a conquistarla. Non dimenticherò mai quel momento e anche il significato dell’abbraccio che mi ha regalato. Era un attestato di stima personale ma soprattutto un segno di sincera riconoscenza nei confronti del movimento che lo celebrava, ma che in realtà è stato lui a gratificare con le sue gesta. Un atto speciale per suggellare un legame d’amore intramontabile. Ora è nell’Olimpo degli immortali, dove la gloria amplifica le virtù eccezionali di un uomo di valore e di valori. Le qualità eccelse di un eroe senza tempo. Ciao, Gigi. Per sempre grazie.

Giovanni Malagò

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