Da quando ho ricordi della casa in cui sono cresciuto, ho impresso nella mente quel quadro che mio padre, sindacalista comunista, appese all’ingresso e che suonava da monito non tanto per chi entrava, ma soprattutto per chi usciva nella vita di ogni giorno. Recitava la poesia di Bertold Brecht sugli uomini buoni che lottano un giorno, un anno, molti anni e sugli uomini imprescindibili, coloro che cioè lottano tutta una vita.

Se devo pensare a un gigante della storia italiana come Giorgio Napolitano non ho dubbi a quale categoria possa essere ascritto: tra gli imprescindibili del riformismo, di coloro che hanno saputo più di altri lottare una vita per provare a coniugare gli ideali più nobili della tradizione progressista – l’eguaglianza, la giustizia sociale, la solidarietà – con i percorsi contorti che la storia ti costringe a fare per raggiungere i risultati e di coloro hanno provato con la loro lotta quotidiana a smentire l’anatema leninista sulle elemosine che i riformisti sono in grado di dare al popolo. Giorgio Napolitano, il dirigente migliorista cui io, giovanissimo ed eretico figiciotto, scrivevo lettere a sedici anni, è stato quell’imprescindibile riformista. Con lui oggi se ne va un pezzo del nostro cuore, ma le sue ragioni, le sue idee, quel coraggio della volontà, no, tutto questo davvero non morirà mai.

Giornalista, genovese di nascita e toscano di adozione, romano dai tempi del referendum costituzionale del 2016, fondatore e poi a lungo direttore di Gay.it, è esperto di digitale e social media. È stato anche responsabile della comunicazione digitale del Partito Democratico e di Italia Viva