I diritti negati
Giornali hot in carcere, ok dei giudici. Prossimo passo l’affettività in cella

La sessualità è un diritto soggettivo assoluto. Si legge nella motivazione di un’ordinanza con la quale il tribunale di sorveglianza di Roma ha accolto il reclamo di un detenuto al 41 bis, difeso dall’avv. Lorenzo Tardella, teso ad ottenere il diritto ad acquistare riviste pornografiche. Non si può ritenere che quanto richiesto rientri nel diritto all’informazione, né che attenga alla materia della ricezione della corrispondenza. È, invece – afferma il Collegio – relativo alla tutela della dignità del ristretto che non è mai comprimibile, della sessualità e del rispetto della propria vita privata e familiare di cui all’art. 8 Cedu. È, ancora, «uno degli essenziali modi di espressione della persona umana». Va ricompreso tra le posizioni soggettive direttamente tutelate dalla Costituzione e inquadrato «tra i diritti inviolabili della persona che l’art. 2 Cost. impone di garantire».
D’altronde il regime del 41 bis o.p. prevede che il c.d. “trattamento penitenziario ordinario” sia sospeso in ragione di pregnanti esigenze di sicurezza e che le limitazioni imposte ai reclusi siano tassative e strettamente correlate alla tutela dell’ordine pubblico dalla pervasività delle mafie o così, almeno, dovrebbe essere. Nessun limite è previsto rispetto alle riviste pornografiche e allora non c’è ragione per negarle tanto più che qualunque scritto pervenga a un ristretto in regime di rigore viene sottoposto a censura prima di essere consegnato. Ma nel provvedimento di favore – che peraltro è stato impugnato dall’autorità amministrativa che vuole negare anche il diritto alla fantasia ed è, pertanto, in attesa del vaglio della Cassazione – si coglie un aspetto davvero struggente e in patente distonia con il dettato costituzionale e con i diritti fondamentali. Si legge nell’ordinanza che la tutela di quel diritto fa sì che debba essere concesso al reclamante di acquistare le riviste a luci rosse perché possa vivere la sessualità sia pur astratta; la possibilità di visionare fotografie erotiche consentirebbe, secondo il tribunale, di migliorare la vita privata del «detenuto sottoposto al regime differenziato per il quale l’orizzonte espressivo della sfera sessuale si riduce ad una dimensione effimera e sublimata».
È sconcertante l’affermazione che esista un diritto assoluto e costituzionalmente garantito e, al contempo, che ci sia una tipologia di detenuti che non possono fruirne. La Costituzione non ammette che ci sia una carcerazione che estromette un ristretto dai diritti fondamentali. Ma a tranquillizzare su una censura di diseguaglianza c’è il dato che nessun detenuto vive in carcere la sessualità. È un diritto insopprimibile soppresso. Strano, no? Eppure l’affettività intima è fuori dagli istituti di pena. È un beneficio per i pochi che dal carcere possono uscire a godere di un permesso premio, magari dopo molti anni di carcerazione. A volte mai. Il desiderio, la spinta naturale, l’istinto sono negati, spezzati, spenti. Il sesso fa parte dell’uomo, della sua essenza. Trascende l’istintualità, è sostanza di uomo. Il carcere strappa all’uomo la sua individualità, comprime, forza, brutalizza la sua natura.
La Corte Costituzionale già nel 1987, poi nel 2012, ha parlato di «una esigenza reale e fortemente avvertita» che «merita ogni attenzione da parte del legislatore». Il concetto è assai semplice. Se la pena mutila un diritto fondamentale della persona è inumana e degradante, non rieduca ma si limita a punire, non restituisce alla società ma annichilisce e spegne la linfa vitale di una persona. Nel tentativo di riforma dell’ordinamento penitenziario sostanzialmente non andato a buon fine, le commissioni incaricate avevano steso le norme per attuare, finalmente, il diritto all’affettività immaginando locali adeguati nei quali permettere incontri privati e sottratti al controllo.
Numerose le difficoltà (a chi riconoscere il diritto? Alle coppie di fatto, alle persone sposate, a chi può dimostrare, anche con scambi epistolari, una frequentazione stabile, ai legami omosessuali? Associarlo a un buon comportamento intramurario? Come contenere il rischio che si consumino abusi?) e le resistenze riscontrate (l’opposizione dei sindacati di polizia penitenziaria che tuonavano “carceri come postriboli”, un sentire comune che relega il sesso alla dimensione ludica e peccaminosa inconciliabile con l’istanza punitiva della reclusione) ma il limite insuperabile risiedeva nella formula contenuta in legge delega di invariabilità finanziaria che non consentiva neppure di immaginare la costruzione di spazi idonei a fare fruire di un diritto l’intera popolazione detenuta. Il tema è oggi in commissione giustizia al Senato tradotto in una legge presentata dalla regione Toscana che tende a rafforzare il diritto all’affettività ipotizzando colloqui prolungati in apposite unità abitative dentro gli istituti penitenziari, le c.d. ‘stanze dell’amore’.
In un tempo in cui le carceri sono blindate, le attività trattamentali e formative sospese, gli affetti esclusi, sembra più che mai utopia. Eppure ai nostri detenuti, che ormai da febbraio vivono una pena quanto mai afflittiva con le restrizioni della pandemia, nell’endemico e soffocante sovraffollamento, senza potersi proteggere da un virus che impone il distanziamento – mentre Rita Bernardini dal 10 novembre è in sciopero della fame invocando a gran voce un provvedimento di amnistia sorretta da un migliaio di persone tra liberi e ristretti – serve subito un segnale di speranza.
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