La Convenzione di Ginevra sullo Status di Rifugiato del 1951 compie 70 anni. Nata dalle macerie della Seconda guerra mondiale, chi la scrisse e chi la ratificò lo fece nella convinzione che gli orrori appena vissuti non sarebbero mai più ritornati, che le tragedie causate dai totalitarismi del secolo scorso sarebbero state vaccino efficace contro ogni violenza e conflitto. È storia vissuta che le aspettative purtroppo sono state tradite da nuove guerre, orrori inediti, persino genocidi, mettendo in fuga il numero impressionante di 82,5milioni di persone, secondo l’ultimo rapporto annuale Global Trends dell’UNHCR presentato ieri a Ginevra. Si tratta di un aumento del 4% rispetto alla cifra record di 79,5 milioni di persone in fuga toccata alla fine del 2019. Numeri in crescita costante da 11 anni che ci dicono che nonostante la pandemia, i conflitti hanno continuato a costringere le persone ad abbandonare le proprie case.

Chi è un rifugiato oggi? Questa domanda rivolta a operatori e volontari del Centro Astalli (Servizio dei gesuiti per i rifugiati in Italia), richiama alla mente tanti volti, tante storie, tanti incontri fatti in 40 anni di cammino al fianco di chi arriva in Italia in fuga da guerre e persecuzioni. Rifugiato è Paul, ha circa 30 anni e viene dal Camerun. Era iscritto al terzo anno di economia ed era uno studente eccellente. La matematica e i numeri sono la sua passione. Fugge dal paese dopo essere stato arrestato e imprigionato più volte per aver partecipato a manifestazioni studentesche. Nel corso di diverse detenzioni viene costretto dentro una stanza buia incatenato, percosso e minacciato di morte. Rilasciato per la terza volta, temendo di essere nuovamente arrestato e forse ucciso, decide di fuggire. Comincia un viaggio pieno di pericoli attraverso il deserto fino alla Libia. «Arrivato in Libia vengo imprigionato senza motivo a Tripoli in un centro di detenzione informale con 200 migranti. Le condizioni igieniche sono terribili, mangiamo pochissimo, dormiamo per terra, torture e violenze sono invece in abbondanza e gratis. Ho visto uccidere molte persone, i carcerieri ci costringevano a seppellire sommariamente i morti. Dopo sei mesi di questo inferno sono riuscito a pagare il riscatto e a imbarcarmi con altri 150 disperati come me».

È rifugiato Stevan che oggi fa il gelataio, è scappato dall’Iraq perché il suo villaggio, abitato da una comunità di cristiani, è stato raso al suolo dall’Isis: tutto distrutto, tutto a fuoco, tutto perso. «Appena arrivato a Roma mi sono iscritto all’Università ma senza soldi studiare era diventato impossibile. Sono andato in Germania per avere maggiori possibilità di lavoro. Lì mi aspettavano parenti e amici. Ho imparato il tedesco e avevo trovato un lavoro. Poi però mi hanno rimandato indietro in Italia. In base alle leggi lì non potevo rimanere, mi hanno spiegato che dovevo tornare nel primo Paese europeo in cui ero arrivato. Sono rientrato a Roma e ho dovuto ricominciare tutto da capo. Ho vacillato, non è stato facile, mi sentivo senza appigli, senza futuro».

È rifugiata Mary, in fuga dall’Etiopia. Oggi vive da sola a Roma tra mille difficoltà e una figlia da crescere: «Il lavoro non c’è, la pandemia ha complicato tutto. Più di ogni altra cosa vorrei tornare a casa mia ad Addis, essere madre come lo è stata la mia, con una famiglia che ti aiuta, ti sostiene e non ti lascia mai. Qui non ce la faccio proprio. Ma se torno lo so che mi ammazzano come hanno fatto con mio marito e mio fratello». Cedric faceva l’attore in Congo, un mestiere che ha sognato da bambino, ma «la dittatura non dà spazio e possibilità ai sogni di un artista. La cultura è libera, esige verità, difende diritti e chiede dignità per tutti. Mi hanno messo a tacere. Prima hanno provato con le minacce poi mi hanno chiuso in carcere e lì mi hanno torturato. E poi la fuga disperata, senza meta. Oggi vivo a Roma, non è facile reinventarsi una vita, un mestiere. Racconto la mia storia nelle scuole e questo mi piace perché mi sento di essere testimone di un popolo oppresso. Sto per andare a Lampedusa con una piccola compagnia teatrale per recitare la mia storia. Mi fa piacere, lo faccio con convinzione e impegno, ma mi chiedo quando potrò recitare senza che l’essere rifugiato sia il motivo per cui mi chiamano a fare l’attore. È davvero difficile riuscire a liberarsi delle etichette e farmi conoscere per quello che sono o forse dovrei dire per quello che ero».

Abdul arriva dal Gambia: un ragazzo diventato adulto in viaggio, attraversando confini e inventando modi per comprare la tappa successiva del viaggio. Lui il riconoscimento dello status di rifugiato non lo ha ottenuto. Ha ricevuto un diniego dalla commissione territoriale cui ha raccontato la storia sua e della sua famiglia: «Sono scappato perché non c’era cibo. La terra che era stata dei miei nonni, coltivata dai miei genitori, non dava più frutti, perché non piove da troppo tempo, ogni anno il raccolto è più povero, la siccità non dà tregua. La mia gente dice che la terra è avvelenata perché le industrie ci seppelliscono i rifiuti. Sono il primo di 8 fratelli, mio padre con il suo lavoro non riusciva a sfamarci. Toccava a me occuparmi della famiglia, sono il più grande e sono partito. Qui in Italia quando ho ricevuto il diniego alla domanda di protezione internazionale mi è stato spiegato che ho scelto di partire e che non sono stato costretto a farlo. Dovrebbero provare loro a vivere a casa mia per un po’».

In settanta anni di Storia lo status di rifugiato ha assunto definizioni e volti nuovi, motivi e cause da cercare anche al di fuori della persecuzione individuale così come descritta nella Convenzione di Ginevra del 1951 che rimane un baluardo che illumina e guida il nostro agire in favore dei rifugiati, Celebrare la Giornata Mondiale del Rifugiato è prima di tutto impegno e responsabilità nei confronti di uomini e donne in cerca di pace e diritti. Comportarsi come se il mondo si esaurisse sulla soglia di casa nostra ci condanna. Per questo il Centro Astalli in occasione del 20 giugno invita tutti a “riscoprire il volto dell’ospitalità”: prendiamoci del tempo per conoscere un rifugiato e ascoltarne la storia potremmo esserne sorpresi a tal punto da voler vivere in un’Europa che si impegni per salvare vite in mare, che apra vie di ingresso legali e che ponga fine a una rappresentazione falsa e dannosamente allarmante delle migrazioni.