Il caso
Giovane tenta di lanciarsi da un ponte, esplode la curiosità morbosa dei passanti
È notte e per una ragazza di vent’anni è buio pure dentro, non vuole vivere un’altra alba, è appesa a un cornicione ed è decisa a lasciarsi cadere nel vuoto. Dieci centimetri di marmo sospesi su uno strapiombo di 30 metri lungo il ponte di via Nuova San Rocco. È un ponte maledetto quello, conosciuto come il ponte dei suicidi. Siamo a Miano, periferia nord della città. Tra qualche passante distratto e stanco c’è qualcuno che comprende le sue intenzioni. Chiama il 112 e intanto si avvicina. La 20enne non vuole parlare e piange ancora.
Nella nota dei Carabinieri si legge che “intanto la folla aumenta, la curiosità accende spesso stimoli morbosi. Arrivano anche i carabinieri, quelli della stazione di Capodimonte. Sgomitano in quel capanno di spettatori e si avvicinano alla ragazza. Non voleva tutto questo, grida di stare lontani. Pochi centimetri la separano dal buio e i militari lo sanno. Uno di loro, un maresciallo, donna anche lei, prova a parlarle. Con parole dolci la tranquillizza e lentamente, con il collega, le arriva alle spalle. Non le dà il tempo di rispondere che la agguanta, stringendola forte e trascinandola all’indietro. Al sicuro. La 20enne è salva”. È salva.
Ma torniamo indietro, a quando le forze dell’Ordine nel raccontare l’operazione parlano di morbosità, di gente che si era radunata stretta, stretta per assistere alla scena, allo spettacolo magari riprendendo tutto con il telefonino, fedele strumento che ci serve per documentare tutto altrimenti non lo stiamo vivendo davvero. È un’arma e spesso ferisce. Lei era un su un cornicione, decisa a non vivere più mentre, da un lato i carabinieri che cercavano di salvarle la vita, dall’altro i curiosi che pensavano di essere al cinema. Ma quanto vale il dolore?
Bisognerebbe scomodare dal sonno dei giusti i filosofi che tanto ne hanno scritto nell’intento di definirlo, quantificarlo, disegnarne i confini. Sì, i confini entro i quali si sta violando il dolore dell’altro. Succede sempre più spesso in una società dove tutto è commestibile, dato in pasto agli altri tra social e vetrine di ogni genere ed è questa strana modalità di vivere che induce le persone a pensare che il dolore dell’altro sia automaticamente accessibile anche a noi. Ci sentiamo in possesso di una sorta di passepartout per la vita degli altri. Siamo troppo affamati della vita degli altri, troppo curiosi di sbirciare dalla fessura e ficcare il naso nel dolore altrui. Gli esperti del dolore.
Una morbosità senz’altro figlia di questo secolo, di questa generazione impermeabile agli altri e al loro dolore. Tentare di farla finita a vent’anni è una tragedia dalle dimensioni bibliche, ma a quanto pare sembriamo esserci abituati a tutto. Pochi mesi fa, un uomo tentò di lanciarsi nel vuoto da un ponte a Pianura e anche in quell’occasione colpì l’atteggiamento dei passanti: chi fi lmava, chi scattava foto, chi addirittura lo insultava. Un’umanità che ha perduto la sua umanità…
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