C’è una cappa che preme su Napoli, che non è solo di sgomento e paura per la serie di giovani morti che si è verificata nelle ultime settimane. Quella che oscura la vista è una coltre d’ipocrisia, ormai antica, che impedisce di distinguere questi fatti di cronaca per quello che sono. Il dolore e lo spavento, l’allarme, sembrano disinnescati nel dibattito pubblico come da un micidiale anestetico. Perché tutto quello che avviene oggi è avvenuto cento, mille volte, e tutto quello che si può dirne è stato, altrettanto, già detto. E che se n’è fatto di tutte quelle parole, ripetute fino alla nausea? Tutto, allora, si osserva attraverso il filtro deformante della sfiducia, quasi della rassegnazione.

Sfido chiunque a trattenere un uditorio sul tema della “Questione del Mezzogiorno”. Credo che anche solo citare questa espressione abbia ormai l’effetto di uno spazio vuoto, di un vociare inutile, referenziale e fine a sé stesso. Un’espressione, “Questione del Mezzogiorno”, che contiene in sé un errore primordiale, una specie di peccato originale. Perché la Questione del Mezzogiorno non esiste. O, meglio, non sarebbe mai dovuta esistere. Esiste invece una serie di problemi che insistono su Napoli e il Mezzogiorno d’Italia, ma che non sono problemi semplicemente di quella città, della relativa regione o dell’intera parte meridionale della penisola. Disoccupazione, mortalità scolastica, malversazione e infiltrazioni nelle istituzioni sono infatti problemi italiani, che riguardano l’intero paese. Perché, se i morti ammazzati di queste settimane sono problemi di Napoli, e le alluvioni sono problemi degli emiliani, allora questa Italia che diamine l’abbiamo fatta a fare? Lo Stato a che serve? L’unità che significa?

Anche questo è stato detto mille volte. Potrei dire che ho scoperto l’acqua calda, se non fosse così fredda e dimenticata. Sta di fatto che il concetto genera da sempre allergie e irritazioni, eccitando le scomposte reazioni di protezionismi iperlocali o semplicemente favorendo l’effetto avverso, letale, della strafottenza. Il consenso è il senso della politica, ma è anche il suo aspetto più controverso e spinoso. Ed in questo caso, come in tanti altri, il consenso gioca un ruolo tragico e fondamentale. La verità è che le cure che servono al nostro Paese, ai suoi arti più malandati, sono dolorose, costosissime e lunghe. Tanto lunghe che chi dovrebbe soffrirne l’applicazione non farebbe in tempo a goderne i benefici. E così, si rimanda.

Per venire, infine, a questi giovani che si ammazzano gli uni con gli altri, che altra risposta mai si può dare se non quella della scuola? E poi della scuola e ancora una volta della scuola? Della scuola a forza e per forza? Non viene in mente altro, semplicemente perché non c’è altro che li possa salvare. Il disagio economico e sociale, la necessità assoluta di sovvertire l’ordine dei modelli che avvelenano le menti. Dove si cura tutto questo, se non a scuola? Di solito, la retorica politica – divenuta comprensibilmente odiosa – si riferisce a quello che dobbiamo fare per i nostri figli. In questo caso non è così, non basta: quello che faremo, se lo faremo, sarà per i nostri nipoti. Siamo disposti? E poi, lasceremo che resti retorica?