Giovanni Minoli, 50 anni e passa di tv in tutte le vesti, colonna storica della Rai e autore di format come Mixer, La storia siamo noi, Blitz, Report, Quelli della notte, Un posto al sole.

La Rai ha festeggiato da poco i suoi 70 anni, come se li porta?
«La Rai è lo specchio del paese, quindi devi chiederti come se li porta il paese. Se ti rispondi che se li porta bene allora anche la Rai se li porta bene e viceversa. C’è un rapporto di amorosi sensi totale, di commistione diretta quasi invisibile che pochissimi colgono. In 70 anni è cambiato tutto: la tv, i linguaggi, la politica».

Per quanto l’abbiano riformata, la politica continua a incidere.
«Renzi l’ha riformata in senso ancora più politico, secondo me giustamente. Avendo ideato la figura dell’amministratore delegato l’ha resa simile a un’azienda normale, poi le ha dato un tempo troppo breve perché tre anni sono troppo pochi per un progetto realizzabile. Il problema degli ultimi vent’anni della Rai è che chi passava per strada andava bene e veniva messo lì. Quindi piano piano si è trasformata da un’azienda di prodotto a un’azienda di processo, e gli uomini di prodotto sono stati sostituti dai burocrati del processo».

In un mondo in cui la tv oggi vuol dire sempre di più piattaforme streaming da cui scegliere il prodotto desiderato, ha ancora senso il servizio pubblico?
«Io penso di sì perché è il luogo dell’unita del paese. È il Noi invece dell’Io. Lo streaming, il multipiattaforma, i social media sono l’Io. Un esempio per tutti: quando Clinton faceva la campagna elettorale la faceva col suo smartphone, nel momento in cui è diventato Presidente degli Stati Uniti la prima cosa che ha fatto è una conferenza stampa a reti unificate perché aveva bisogno di parlare al paese contemporaneamente. Questo è l’ubi consistam della Rai, cioè la possibilità nella stessa unità di tempo e di luogo di parlare a tutti. E infatti il messaggio del Presidente della Repubblica va a reti unificate».

Che funzione dovrebbe svolgere oggi il servizio pubblico?
«Bella domanda. Tutti i paesi in Europa ce l’hanno. La Thatcher, la più grande privatizzatrice del mondo, la Bbc non l’ha toccata, se l’è tenuta così come si è tenuta la Telecom, mentre invece noi l’abbiamo regalata ai vari capitani coraggiosi. Il servizio pubblico ha senso nelle democrazie europee perché è il luogo del pluralismo culturale e democratico a favore del cittadino. Se le tv commerciali parlano prevalentemente al consumatore, i servizi pubblici parlano ai cittadini, fanno l’unità del paese. Quindi ha senso, ma il tema è come dev’essere organizzato. L’attuale organizzazione secondo me è completamente sbagliata, perché potere e responsabilità sono separati e non si capisce mai chi comanda dove e chi faccia cosa».

Secondo gli ultimi dati degli ascolti nelle 24 ore Mediaset ha superato la Rai, non è rilevante?
«Non farei delle affermazioni apodittiche perché per quello che riguarda la Rai siamo agli inizi di una nuova gestione, quindi diamole un po’ di tempo. Mi aspettavo però che la nuova dirigenza spiegasse perché ci vuole il servizio pubblico, che obiettivo culturale ha, come dev’essere organizzato e per ultimo chi nominare per fare tutto questo. Come sempre si è proceduto al contrario, prima le nomine e poi vediamo per fare cosa. Ed essendoci un cambio di regime sostanzialmente fa più effetto, perché eravamo abituati a stare sempre dalla stessa parte, sempre con gli stessi, e invece no, adesso c’è un cambio. E dove dovrei vedere questo cambio? Soprattutto nel progetto editoriale. Ma non c’è ancora stato, perché il cambio è stato fatto in corsa e malamente, su un modello di organizzazione dell’azienda che era quello di Campo Dall’Orto, non ne hanno fatto un altro adattandolo a un progetto culturale ed editoriale diverso».

La Meloni aveva detto di voler cambiare tutto, tu vedi programmi innovativi o nuovi autori?
«No. Ma, ripeto, la prima cosa era pensare al modello organizzativo. Se abbiamo detto che la Rai deve esistere la domanda è perché e per fare cosa, poi uno giudica. Il difetto principale è non aver dichiarato chi sei, cosa vuoi fare, come, da chi. La sequenza logica dovrebbe essere questa, ma non c’è stata mai. È successo solo all’epoca di Bernabei perché lui aveva un progetto culturale precisissimo e l’ha realizzato rendendo la Rai il più grande servizio pubblico d’Europa. Perché poi ogni tanto bisogna anche dirlo, adesso facendo Techetecheté o Rischiatutto capiamo che roba stupenda c’era, l’avevamo fatta noi. Però se la Rai è lo specchio del paese lo rispecchia in tutto. L’Italia in questo momento è un grande paese che si sta sviluppando bene? Non sono proprio sicuro. Se sarà speriamo, per adesso non mi sembra così evidente. Poi soprattutto mi sembra che la Meloni, che stimo e considero molto intelligente e studiosa, e che nell’insieme fa fare bella figura all’Italia nel mondo, sia sola».

Anche un po’ per scelta.
«Non gliel’ho chiesto quindi non ti so dire se è sì o no. Però è sola. O anche per necessità. Lei si è data cinque anni e ha ragione, va giudicata nel tempo. Intanto ho l’impressione che non ci abbia ancora messo la testa sulla Rai, perché è stata presa da cose impellenti di altro genere. Poi hanno fatto questo cambio in corsa con una diarchia che dura fino a giugno e che sarà cambiata, tutto questo più o meno paralizza tutto. Quindi non si tratta di un programmino in più ma di avere un progetto editoriale complessivo che riguarda un’idea del paese».

I talk show rappresentano un’idea di servizio pubblico?
«Bisogna partire dalla crisi strategica dei giornali, per cui i giornalisti un po’ più bravi e famosi si sono improvvisati star televisive. Infatti nei talk show tu vedi sempre la stessa compagnia che gira per tutti i programmi e che ha trasformato la televisione in radio, questi giornalisti sono diventati loro i politici che ti spiegano il mondo, mentre la politica la fanno gli altri. Non incidono su niente ma sembra che incidano e siano loro i protagonisti, e invece sono dei quaquaraquà che chiacchierano a proprio beneficio sostanzialmente, più o meno sono sempre gli stessi».

Ugualmente la degenerazione della classe dirigente del paese si riflette nella qualità di questi programmi.
«Quando dico che la Rai “è” il paese confermo questo, dato che l’azionista della Rai è la politica. Se la politica non c’è la Rai produce cose modeste, perché le persone demandate sono persone il cui tasso di professionalità specifica è molto basso, ed è molto più necessaria la servitù di quanto non sia un’intelligente interpretazione di un sistema di valori e di un progetto paese. Un giorno chiesi a Fanfani cosa fosse il potere e lui mi rispose “è semplice, il potere è avere un grande progetto per il paese che ti contenga ma che ti superi (per cui il contrario della visione personale). Poi bisogna essere in grado di scegliere delle persone migliori di te senza averne paura, e terzo essere assolutamente inattaccabili”. La storia del potere è questa».

Quali sono per te i prodotti di maggiore qualità nella Rai di oggi?
«Quelli che c’erano. Geo and Geo di Sveva Sagramola fa il 14% di share da 25 anni, qualcuno ne parla? No. È una bomba atomica. Un posto al sole, la più grande industria culturale di Napoli, sono 7000 posti di lavoro. Adesso mi danno la cittadinanza onoraria, mi ha telefonato il sindaco dicendomi che fra gli imprenditori numero uno di Napoli ci sono io. Non sarebbe nata l’unica fetta industriale che ha la Rai, cioè la fiction, se non ci fosse stato Un posto al sole che ha allevato tutte le forme di professionalità necessarie a vari livelli. Il più grande complimento me lo fece Fedele Confalonieri quando la prima volta venne sul set dicendomi “ecco, questo è il servizio pubblico”, perché fa formazione professionale per il sistema industriale del paese nella comunicazione. Se invece uno che passa per strada va bene per fare il direttore generale della Rai, come è capitato negli ultimi 20 anni, capita che quello lì esternalizzi, cioè dà dei soldi per fare quello che dice lui e tu lo fai perché intanto prendi i soldi. Così tutta la gerarchia qualitativa di persone di prodotto che sono in Rai viene messa da parte e non lavora più. Praticamente in 20 anni c’è stata la sostituzione antropologica del personale Rai da uomini di prodotto a uomini di amministrazione e gestione. Non è normale che con 15000 dipendenti e 1750 giornalisti il 75% di ciò che va in onda venga prodotto in outsourcing, qualcosa non funziona».

Chiudiamo con un gioco: io sono il Presidente del Consiglio e ti dò pieni poteri sulla Rai. Che cosa butti e che cosa immetti?
«So benissimo cosa bisognerebbe fare, non è complicato. Appena capita te lo dico».