L'intervista
Giovanni Orsina: “Con questa sinistra è stallo perenne, Schlein sa fare bene l’opposizione ma al Pd ora serve cultura di governo”
Astensione alle urne, centrodestra che vince in Liguria e tenaglia giudiziaria contro Toti: colloquio con lo storico e direttore di Scienze politiche della Luiss, Giovanni Orsina
Il centrosinistra che non c’è, gli elettori sempre più lontani dalle urne, la riconferma del centrodestra in Liguria, malgrado il terremoto del caso Giovanni Toti, con Marco Bucci. Nel contesto della più clamorosa bocciatura da parte degli elettori della tenaglia politico-giudiziaria, l’analisi del voto delle ultime regionali non parla solo di elezioni amministrative.
Giovanni Orsina, storico e direttore del dipartimento di scienze politiche alla Luiss di Roma, ne è convinto.
Si è votato in Liguria ma gli effetti dovrebbero parlare, a saperli leggere, all’Italia.
«Siamo di fronte a una situazione, per quante persone si sono allontanate dal voto, che porta solo gli elettori più motivati ad esprimersi. Da una parte e dall’altra».
Una sorta di “elettorato qualificato”?
«Sì, ma con il risultato che questa dinamica regala alla destra un vantaggio strutturale. Perché quello di destra è un elettorato che tende a convergere, e vale fra il 45 e il 48%. Dunque, quando alle urne si arriva all’osso, loro partono da lì. Da una posizione quasi maggioritaria dalla quale la sinistra è molto lontana».
La morsa a tenaglia dell’azione giudiziaria e della tempesta mediatica su Toti non ha spostato niente…
«Non ha avuto un grande peso. Quelle cose avevano peso per un elettorato giustizialista, antipolitico, che oggi tende ad astenersi. Sono sostanzialmente gli elettori che hanno dato vita al M5S e che oggi preferiscono, terminato un ciclo, starsene direttamente a casa».
A che cosa si deve la scomparsa dell’elettorato di opinione?
«Chi non è particolarmente motivato, di fronte a un’offerta politica non molto attrattiva – né da una parte, né dall’altra –, e di fronte alla sensazione che qualunque sia il voto, poi le scelte del Paese siano comunque obbligate, vincolate, imbrigliate, fatica a trovare ragioni per mobilitarsi. Soprattutto nelle elezioni locali. Poi nelle elezioni politiche si va a votare di più perché le si ritiene più importanti».
Una volta le amministrative, elezioni di prossimità, portavano più elettori al voto…
«Ma le regionali sono considerate elezioni ibride: non abbastanza amministrative e non ancora politiche. Una terra di mezzo che ha poca presa. La tendenza si è consolidata in tutte le ultime tornate regionali».
Torniamo all’osso. Quello del centrodestra, che è preponderante, non si fa influenzare dall’iniziativa giudiziaria. Forse, al contrario, trova una motivazione per rispondergli.
«Sì, gli elettori di centrodestra potrebbero essersi sentiti punti nel vivo e motivati ad andare a votare in risposta a una ingerenza della magistratura. Il tema della giustizia a orologeria vede quegli elettori mobilitati, quella che lei definiva “tenaglia” potrebbe essere stata un boomerang per chi aveva pensato di lanciarla».
Come diceva lei, professore, lo zoccolo duro si coagula nel Pd ma per il centrosinistra sono guai.
«Perché l’appello militante li concentra lì. Ma poi manca quello spirito di coalizione che invece c’è nel centrodestra. Ripartiamo dalla storia: gli elettori antisistema, che contestano la politica, erano organizzati dal M5S. Che era un vero terzo polo: antitetico al centrodestra ma pure ostile a quello che Grillo chiamava “Pd meno elle”. Adesso il Movimento non ha più la forza di fare il terzo polo e ha l’opzione di fare il partner di minoranza del Pd. Ma non è detto che i suoi elettori siano tutti disposti a seguirlo: nati quadrati, magari non hanno voglia di morir tondi. Non per caso, i 5 Stelle quando vanno da soli prendono voti, mentre quando vanno in coalizione li perdono».
Nel duello tra Conte e Grillo, risulta vincente Grillo. Che è rimasto a casa e non ha votato come il 55% dell’elettorato.
«Bene o male quell’elettorato se lo è inventato Grillo. Adesso deve affrontare una mutazione genetica, ma in politica questi processi non sono mai semplici, figurarsi indolori o automatici».
Paolo Mieli dice che il Pd si dà un’identità chiara, Avs cresce, ma nel centrosinistra manca una gamba riformista, moderata.
«La sinistra-sinistra in Italia vale un terzo dei voti. È sempre stato così. Se storicamente il centrodestra mette insieme il 45%-48% dei voti, la sinistra sta intorno al 33%. Quindi se non guadagna un altro 15% muovendosi verso il centro, non può arrivare a governare».
È un divario incolmabile?
«Storicamente Prodi è riuscito a battere Berlusconi, allargando la propria maggioranza, quindi l’impresa è fattibile. Non impossibile, dunque, ma certo molto difficile».
Cosa servirebbe?
«Tanta politica. Una leadership inclusiva, capace di entrare su terreni non tradizionalmente di sinistra, che oggi ancora non si vede. E un programma chiaro, incisivo, sul quale tutti possano convergere per garantire un grande progetto politico di governo».
Claudio Petruccioli dice che il Pd difetta di cultura di governo. Rivendica la sua identità di sinistra ma non convince di poter governare, neanche più sul piano locale.
«Pare anche a me che sia così. Per costruire un’alternativa di governo dovrebbe essere più ecumenico e meno identitario. All’elettore italiano medio non interessano troppo i diritti Lgbt, per intenderci. Interessano la sanità pubblica, la difesa del potere d’acquisto, la gestione dei flussi migratori. Se il Pd e la sua coalizione non riescono a scendere in maniera convincente su questi terreni, è facile prevedere ancora molti anni di successi del centrodestra».
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