Una lama di dodici centimetri conficcata al centro del cuore, poi il buio. Giovanni è morto a diciannove anni, ucciso da un ragazzino di quindici. A illuminare la morte (gran bel paradosso vero?) lucine colorate, quelle delle giostre per bambini di via Giacomo Leopardi a Torre del Greco. Quelle che ci riportano in un baleno ai giorni felici di quando si è piccoli, troppo piccoli per conoscere la morte e l’odore del sangue. Così piccoli da sentire solo l’odore dello zucchero filato. È una morte che stride perfino con il contesto dove si è consumata.

Un Luna park, simbolo dell’infanzia, una coltellata al cuore, simbolo di un’infanzia perduta e di una vita spezzata. Ce l’ha fatta il suo migliore amico, Nunzio, anche lui colpito al torace da numerosi fendenti. «Poniamoci la domanda delle domande – afferma Maria Luisa Iavarone, professoressa dell’università Parthenope e madre di Arturo Puoti, ragazzo aggredito violentemente da una baby gang nel 2017 a via Foria – Cosa accade nella mente di un ragazzino che esce di casa con un coltello in tasca? Perché un ragazzino pianta la lama di un coltello nel cuore di un coetaneo? Chi ha ucciso è chiaramente un ragazzo abbandonato a sé stesso, fuori controllo – continua – mi colpisce anche la scena del crimine. Un ragazzo che a 19 anni trascorre in provincia la domenica sera alle giostrine. Dove invece troverà una morte che nulla ha a che fare con l’infanzia. È una provincia che non offre molto e anche su questo dovremmo interrogarci. Non ci sono luoghi adatti alla qualità della socialità e questi posti diventano teatro di scene di morte e di un dolore immane».

All’alba del giorno dopo quando si cerca di mettere insieme i pezzi di un dramma dai contorni incomprensibili, arriva puntuale l’ammissione di colpe da parte di tutti. Un mea culpa generale che in qualche modo vuole alleviare il senso di fallimento che proviamo tutti. «Ce lo stiamo dicendo da anni che tutti quanti abbiamo fallito, ma solitamente dagli errori si impara e invece c’è una diffusa incapacità di imparare da queste storie – afferma la professoressa IavaroneSe tutti hanno sbagliato, non ha sbagliato nessuno. Invece non è così. Dobbiamo andare oltre l’assunzione del fallimento e verso la costruzione di una soluzione significativa. Dovremmo provare veramente a sottrarre questi ragazzi al loro destino, a loro stessi. Perché un ragazzo che arriva a uccidere è un ragazzo che è già preda di un’immane tragedia personale». Non è mancata, come ogni vicenda sulla quale si intravede la possibilità di poter strappare qualche like sui social, una certa parte della politica locale che ha impugnato la forca e gridato alla pena esemplare: buttiamo la chiave e amen. Questa è la soluzione per molti, questa è la fine di una società.

«È troppo comodo dire a cose fatte condanne esemplari, arrestiamoli e buttiamo la chiave. Ma stiamo scherzando? Qui si impugna la forca per sentirsi apposto con la coscienza – replica Iavarone – Non è così che si risponde a queste tragedie. Non bisogna aumentare la quantità di pena, ma la qualità. È evidente che questo carcere non produce effetti rieducativi, come invece dovrebbe sempre essere. Ogni anno nel penale minorile si spendono 40 milioni di euro. Il problema è che non abbiamo un rendiconto dell’esecuzione penale minorile. In quel caso ci renderemmo conto ancor di più del fallimento del sistema, le persone che dicono queste cose non seguono la traiettoria di questi ragazzi». Di norma un minore che commette un reato grave viene trasferito a Nisida, il 70% di loro andrà in messa alla prova e anche dopo crimini così gravi i ragazzi dopo qualche anno verranno affidati ai servizi sociali. Il 60% di loro poi risulta recidivo, a conferma del fatto che questo servizio di esecuzione penale non funziona.

«Sbagliamo l’approccio – conclude Iavarone – ovvero o si agisce con la repressione o si sceglie la prevenzione. Non è così, sono due azioni che dovrebbero camminare sempre insieme. E parlo anche della formazione degli educatori, di tutte le figure socioeducative che non hanno alcun tipo di controllo rispetto al loro operato. E penso all’assenza di contezza – aggiunge – parliamo di vent’anni di povertà educativa e non siamo riusciti a farla diminuire neanche di un punto percentuale. Contiamo i morti e non sappiamo perché muoiono». Sappiamo però che un ragazzo di diciannove anni ha trovato la morte con un coltello piantato nel cuore, che nello stesso momento una famiglia è devastata dal dolore, che due ragazzini di diciassette anni hanno ucciso e che quando il dolore avrà lasciato spazio alla lucidità, saremo tutti chiamati a interrogarci.

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Giornalista napoletana, classe 1992. Vive tra Napoli e Roma, si occupa di politica e giustizia con lo sguardo di chi crede che il garantismo sia il principio principe.