Il caso di Gioventù Nazionale scuote FdI e impone una riflessione. Come crescono, si formano, si strutturano i giovani del primo partito italiano? Lo abbiamo chiesto al professor Luigi Di Gregorio, politologo e saggista che insegna comunicazione politica all’Università della Tuscia.

Come si forma la classe dirigente di maggioranza?
«Governare è una formidabile palestra formativa, sotto tanti profili. Allena a fare i conti con i limiti e i vincoli, quelli formali, quelli di bilancio, quelli procedurali e burocratici. Allena a pensare nell’interesse della comunità e non solo della propria parte politica. Allena a sviluppare intelligenza politica, nel senso proprio di “intelligere”, di leggere le singole situazioni. E allena anche a stare sempre sotto i riflettori».
Una sfida doppia, oggi, con le vite ipermediatizzate e la società dello spettacolo…
«Garcia Marquez diceva che ognuno di noi ha una vita pubblica, una privata e una segreta. Oggi, se sei al governo, nell’era digitale e della personalizzazione, quella privata e quella segreta tendono a sparire e a diventare argomenti di dibattito pubblico».
Il caso di oggi riguarda la classe dirigente di Fratelli d’Italia. E’ diventato nel breve volgere di cinque anni il partito-kingmaker del sistema.
«Io tendo a distinguere classe politica da classe dirigente. La classe politica di FdI ha mediamente una lunga esperienza politica, anche se non di governo. Quello di classe dirigente, per me, è un concetto più ampio, che ingloba tutte le élite di una comunità nazionale. Sotto quel profilo, un po’ come per tutte le destre occidentali, c’è un rapporto complesso, minato da una lunga diffidenza reciproca».

Questa diffidenza ha ancora ragione di esistere?
«Le élite globali tendono a essere quasi monopolizzate dal pensiero liberal e progressista e questa è anche la ragione per cui la dicotomia élite-popolo oggi vede il secondo più rappresentato dalla destra, come testimoniato anche dalla frattura tra voto urbano e voto periferico e dalla ormai celebre “polarizzazione”. Anche in questo caso, secondo me, l’esperienza di governo resta la migliore palestra, pure per superare certe diffidenze e per lavorare a un rapporto che si basi prima di tutto su una legittimazione reciproca».

L’antifascismo è impresso con chiarezza tra i valori fondativi di FdI? Ci sono aree di grigio, a chi spetta chiarire le idee?
«Se è infatti giusto chiedere alla Destra italiana di affermare senza reticenza che l’antifascismo fu il momento storicamente essenziale per il ritorno dei valori democratici che il fascismo aveva conculcato…”, questa frase, contenuta nelle tesi di Fiuggi, l’anno prossimo compirà 30 anni. In questi 30 anni, tra Fini e Meloni, non c’è stata neanche l’ombra di un’area di grigio. Se poi si considera area grigia il fatto che Meloni non usi il termine antifascista, significa davvero attaccarsi al termine e non al concetto. E il termine, purtroppo, ha una storia di “appropriazione indebita” da parte di una precisa cultura politica. In ogni caso, i pericoli di una deriva autoritaria si definiscono valutando le azioni, i fatti, le decisioni politiche. La delegittimazione ideologica dell’avversario e la tendenza a imporre i propri valori come unici valori accettabili è esattamente il modus operandi dei regimi totalitari. È quello il regno del pensiero unico e del nemico ideologico».
Quali strumenti o soluzioni vede? Una Frattocchie di destra? Berlusconi aveva pensato a una Università delle Libertà…
«Le scuole di formazione sono sempre un’ottima idea. Peraltro, viviamo un’epoca di grandi stravolgimenti, di “policrisi” o “permacrisi” – come si suol dire oggi. Così come la formazione permanente è diventato un asset necessario per qualsiasi occupazione o mestiere, allo stesso modo credo che la politica non possa tirarsi indietro e debba costantemente aggiornarsi per stare al passo con tempi turbolenti e cangianti a un ritmo esponenziale e con una società iperconnessa e interdipendente, dunque anche ipercomplessa».

In generale manca cultura politica, capacità di analisi storica, un po’ da tutte le parti… da docente che impressioni ha, stando in aula?
«Sinceramente in aula vedo molto pragmatismo e poco ideologismo, per fortuna. E vedo anche tanta curiosità intellettuale, in crescita rispetto a qualche anno fa. Quanto alla capacità di analisi storica in ambito politico, io vedo soprattutto atteggiamenti di comodo, tattici e gruppisti, e di conseguenza divisivi. Viviamo nel mondo più complesso di sempre, ma la complessità tende a sparire dal dibattito pubblico, perché solo ipersemplifi cando e distinguendo in ottica binaria (noi-loro) si riesce a catturare l’attenzione e a mobilitare le emozioni. È una corsa a chi riempie prima gli istanti di pathos e di emozioni mobilitanti. L’esatto opposto di ciò che fa la storia, che ha bisogno di tempo e di far decantare le emozioni. Piaccia o no, è un atteggiamento fi glio dei tempi».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.