Mamma, non piangere le mie ceneri.
Se domani sono io, mamma, se non torno domani, distruggi tutto.
Se domani tocca a me, voglio essere l’ultima.
Riecheggiano i versi dell’attivista peruviana Cristina Torres Cáceres, accanto compare quasi sempre la fotografia di Giulia Cecchettin. La poesia, monito per ogni uomo e ogni donna, si sbriciola su una convinzione che non ci lascia scampo: Giulia non sarà l’ultima donna a morire per mano di un uomo.
«La storia di Giulia, dimostra ancora una volta, che queste sono vicende che non hanno mai una fine, la storia si ripete, c’è sempre un altro caso, un’altra donna che ci lascia sgomenti» riflette Lucia Annibali, donna di legge e donna che ha conosciuto la violenza per mano di un ex fidanzato.

Dottoressa Annibali, ancora una volta: lo sapevamo già tutte. Sapevamo che Giulia non sarebbe più tornata a casa. Lo sapevamo prima che le indagini facessero il loro corso e che i giornali dessero la notizia della sua morte.
«Sì. Ogni storia di femminicidio ci fa credere che nessun’altra ci colpirà così tanto. E invece non è così, ogni volta c’è un nuovo caso, una nuova storia che ci ferisce allo stesso modo che ci lascia sgomenti. Questo dimostra che sono vicende che non hanno mai una fine, c’è sempre una volta in più che ci deve far render conto di quanto questo tema sia radicato profondamente nella nostra società, di come sia strutturale e sarà sempre così. Sarà sempre un’atrocità che si rinnova».
I numeri ci dicono appunto che non è un’emergenza, non sono eventi sporadici ma al contrario è diventato quasi “normale” pensare a un femminicidio quando una donna sparisce. Insiste un problema culturale, una società che dimostra di avere una ferita enorme?
«Sì, la violenza maschile sulle donne ha le sue radici in una questione senza dubbio culturale. Consiste in un esercizio del potere e trae origine da una disparità di potere tra uomo e donna che è insita nella nostra società, lo è dai tempi dai tempi. È da sempre che le donne subiscono violenza da parte degli uomini. Pensiamo anche allo stupro utilizzato oggi come arma di guerra. Basti vedere le notizie che ci arrivano dai conflitti odierni. C’è una disparità di potere che ancora oggi insiste in una società che noi pensiamo debba essere moderna ma in realtà l’organizzazione economica e sociale del Paese ci rappresenta una disparità di posizioni e quindi di potere, sul piano economico, di possibilità lavorative, di un linguaggio sessista diffuso, tutto espressione di questa cultura».

La storia di Giulia ci racconta di due ragazzi giovanissimi. Le chiedo, lei crede che ci sia in questa società una generazione che non ha il concetto del limite? Che non conosce cosa voglia dire: No? Dei giovani protetti sempre e comunque dalle famiglie e da una scuola che spesso deve arrendersi all’invadenza dei genitori e che quindi non sanno accettare un No, che si tratti di un rapporto sessuale o il No alla richiesta di continuare una relazione amorosa.
«È così, vale per gli adulti e certo vale anche per i giovani perché colpisce che ci sia una violenza così diffusa tra i giovani che dovrebbero avere invece degli strumenti in più di riflessione rispetto a ciò che succede nella società e rispetto a questi temi. Sicuramente c’è una tendenza a proteggere i ragazzi, a deresponsabilizzare i figli rispetto anche all’idea di faticare per conquistarsi degli obiettivi. Tante volte si è sentito di genitori che contestano gli insegnanti, i social sicuramente non aiutano con tutte queste informazioni schizofreniche legate anche all’immagine che bisogna dare di sé, di vivere in una condizione agiata. Bisognerebbe capire cosa pensano i giovani della violenza contro le donne e ci sono anche stati dei sondaggi: non si sono rivelati lusinghieri. Non si ha la percezione che sia un fatto pubblico ma che sia invece qualcosa che debba rimanere in luoghi privati. Sicuramente ci sono anche degli esempi in famiglia, dipende poi da quale capacità si ha di elaborare e riflettere su quegli esempi e nel caso allontanarsene».
La sorella di Giulia, Elena, ha parlato anche di responsabilità genitoriale…
«Dipende anche da quali modelli i figli hanno davanti. Ora, io non voglio cadere nel concetto per il quale ci sono delle madri anormali che subiscono violenza e stanno zitte però certamente dipende anche dagli stimoli e dal vissuto familiare di ognuno che incidono profondamente nella formazione di un giovane».

Per cercare di educare i nostri giovani, il Pd tramite la sua segretaria Elly Schlein ha proposto di introdurre nelle scuole l’ora dell’educazione all’affettività. Cosa ne pensa?
«Mi domando chi la faccia questa educazione all’affettività. Penso che sia un tema che ogni tanto ritorna in auge, ma bisognerebbe capire come e chi. L’educazione affettiva presuppone che chi la spieghi sia a sua volta risolto rispetto a certi temi. È un dibattito nel quale puntualmente entra di tutto, bisogna pensare a fatti con serietà. Non sempre la scuola è in grado di dare ai ragazzi gli strumenti di rielaborazione reale di questi temi. Servono tante cose. In base alle caratteristiche e il caso si lanciano idee, invece bisogna cominciare a fare pace con questi fatti e iniziare a pensare che sono purtroppo comportamenti ormai strutturati e che quindi occorre dare risposte di lungo respiro non sull’onda emotiva ed evocativa in base alle caratteristiche della singola storia. Manca la consapevolezza che di questo tema ci si debba occupare sempre, ogni giorno e con lungimiranza. Coinvolgere la scuola non è un’idea innovativa, è la stessa convenzione di Istanbul che ci dice da anni che vanno coinvolti tutti gli attori, tutti i ministeri, tutte le istituzioni e che bisogna avere un approccio trasversale».
Lei crede che in questi casi, un percorso di giustizia riparativa possa essere una possibile strada da percorrere?
«La giustizia riparativa presuppone una volontarietà da entrambe le parti, soprattutto da parte della famiglia che ha perso Giulia. È un percorso che si potrebbe intraprendere in un momento sicuramente successivo a questo. È una scelta assolutamente personale».
Cosa pensa invece dell’approccio dei media alla storia di Giulia, come a quello delle tante storie che purtroppo riempiono quotidiani e talk show?
«Penso sempre che questi casi di cronaca facciano esplodere un dibattito spesso poco intelligente, che delude, con concetti e idee quasi sempre improponibili e inaccettabili. Il più delle volte sfociano sempre in offese, colpe, in una ricerca di responsabilità: si finisce sempre per caricare di responsabilità le donne quindi non mi sembrano generalmente dibattiti intelligenti. Ricordo quando ero ricoverata in ospedale, non vedente, avevo sentito che in tv avrebbero fatto una trasmissione sul mio caso e chiesi di poterla seguire. Ricordo di essermi sentita molto offesa come donna, feci spegnere la televisione. La storia si ripete».

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Giornalista napoletana, classe 1992. Vive tra Napoli e Roma, si occupa di politica e giustizia con lo sguardo di chi crede che il garantismo sia il principio principe.