Di violenza, di brutalità, di politica e di carcere. Ma anche di educazione di una società che pare essersi abituata alla morte. Ne parliamo con Lucia Annibali, donna di legge e donna che ha conosciuto la violenza per mano di un ex fidanzato.

Dottoressa, il femminicidio di Giulia Tramontano ci ha fatto piombare tutti nel dolore. Doloroso è anche il sentire comune: lo sapevamo tutte. È l’hashtag che sui social accompagna la foto di Giulia. Lo sapevamo tutte. Un’affermazione che ci porta dritti alla tragica consapevolezza che avevamo ancor prima che il giallo venisse risolto. Vuol dire che stiamo in qualche modo “normalizzando” la morte di una donna per mano del compagno?
«Più che normalizzare quanto accaduto, forse è normale pensare che sia stato il compagno, visto che il più delle volte è così. Quando ci sono casi di questo tipo, cioè quando c’è una donna aggredita o uccisa, ci si aspetta che ci sia il coinvolgimento della persona che le stava accanto».

Ci siamo “abituati” a leggere di donne morte per mano di chi diceva di amarle?
«No. Voglio pensare e sperare di no. Ogni volta che leggo queste notizie, provo un senso profondo di dolore e tristezza, soprattutto in questa storia che racconta di una ragazza uccisa e che aspettava un bimbo. Non bisogna mai abituarsi a questo, anzi, dobbiamo impegnarci di più e fare meglio per questo tema che non racconta di episodi sporadici».

Gli organi d’informazione, come pure la politica, trattano i femminicidi come un’emergenza. I numeri ci dicono, invece, che è una ferita strutturale della nostra società. Basti pensare che, in Italia, solo nel 2022 le donne sono state vittime del 91% degli omicidi commessi da familiari o (ex) partner.
«Sì, è così. La violenza sulle donne è un fenomeno strutturale, non è assolutamente emergenziale. Affonda le sue radici in una disparità di trattamento, di potere economico e culturale. È dalla storia dei tempi che le donne subiscono violenza, un tempo si pensava che certe dinamiche, come il patriarcato, facessero parte della cultura. Noi dobbiamo sradicare proprio questa cultura che rende, non dico normale, ma accettabile il fatto che possano esserci disparità, abusi e soprusi verso le donne. Ma pensiamo anche alle dinamiche interne alle famiglie. Se pensiamo a una donna alla quale non è data contezza del patrimonio o alla quale viene sottratto il proprio reddito per essere gestito dal compagno, anche questa è violenza. Sono tutte forme di controllo e di potere che si esercitano sulle donne. La violenza si nutre proprio di questi stereotipi presenti nella società. È su questi che bisogna lavorare per promuovere una parità reale tra uomini e donne. Ed è un lavoro molto complesso. Non basta intervenire sulle singole norme, aumentare pene o reati ma intervenire sulle dinamiche sociali».

La Pm che ha seguito il caso di Giulia Tramontano in conferenza stampa ha detto, rivolgendosi alle ragazze: “Non andate mai all’ultimo appuntamento”. E il pensiero più diffuso è: insegnate alle ragazze a salvarsi. Le chiedo, quale futuro ha una società che deve preoccuparsi di insegnare alle donne a salvarsi e non agli uomini a vivere e convivere civilmente nel rispetto dell’altro?
«Esatto. Infatti io parlerei agli uomini, più che alle donne. È un consiglio giusto, ma non sempre succede perché è andata a un appuntamento, la mia aggressione non è avvenuta durante un ultimo incontro. Inoltre, diventa l’ultimo con il senno del poi. È vero che bisogna stare attente, quando la violenza si insinua in una storia, quella è una storia pericolosa. E in quel momento non bisogna rimanere sole, non si devono più avere contatti con quella persona. Ma bisogna far capire bene che una donna muore non perché si reca all’ultimo appuntamento o perché è sprovveduta e non si è protetta abbastanza. Muore perché ha incontrato un uomo violento. Punto. Questi consigli sono giusti, ma si tende a spostare l’attenzione sempre sulla donna. Su quello che lei avrebbe dovuto fare. Ma quelle che subiscono violenza fanno già tantissime cose per proteggersi e non dipende da loro se poi succede quello che succede. La società ci costringe a stare attente sempre, anche mentre rientriamo la sera, e non dovrebbe essere così. Insegnerei alle ragazze a costruire la propria libertà, indipendenza. Ma nel momento in cui si incontra un uomo violento, tutto viene sovvertito. Non esistono più delle regole. Starei attenta a chiedere ogni volta qualcosa in più alle donne».

La storia di Giulia, come tante altre, ha mostrato che ancora resiste la spettacolarizzazione del dolore a opera di tv e stampa. La ricerca spasmodica di dettagli, il parere dei vicini di casa, urlare al fidanzato ammanettato: “Hai ucciso tu Giulia?”. Che idea ha?
«Resiste assolutamente il bisogno di raccontare in un certo modo queste storie, di andare a cercare un particolare, una parola, in un momento inopportuno. Non condivido un approccio che trasforma la cronaca nera in cronaca rosa. Ricordo una trasmissione nella quale veniva invitata sempre una signora, che intervistata più volte per la morte della sua vicina di casa, appariva sempre più pettinata, truccata e in tiro. Così si trasforma tutto in uno spettacolo».

C’è poi la tendenza a fare i processi in televisione e non nelle aule di giustizia.
«Sì. Questo è un grande tema. Il voler fare le indagini, le ricostruzioni e quindi poi i processi in tv. Naturalmente non sono d’accordo. Tutto deve svolgersi nei luoghi e nelle modalità opportune. Credo ci sia un dovere di riservatezza anche sul piano giudiziario. Aspetterei anche a dire delle cose alla stampa, a dare in pasto dettagli di una vicenda ancora da chiarire. Diciamo da sempre che un indagato, un imputato, devono avere diritto a una difesa e a tutte le garanzie previste dalla Costituzione. Quindi questo deve valere per tutti, anche per chi ha commesso il crimine più atroce. Deve essere un approccio culturale, giuridico, costituzionalmente orientato e lo stesso vale con chi poi sconta la pena in carcere. È un esercizio difficile, ma è un esercizio di democrazia. È molto facile dimenticarsi di questi princìpi. Io non amo neanche questo proliferare di articoli sulla personalità di chi commette il reato, aggiungere particolari su particolari».

In un’intervista, lei ha spiegato di non condividere la visione “carcerocentrica” e di mal sopportare la dialettica del “marcire in galera”. Nonostante ciò che le è accaduto, è rimasta garantista, non ha ceduto alla tentazione di appiattirsi su posizioni giustizialiste.
«No, non ho mai ceduto a questa tentazione. Credo nel principio del garantismo e nell’idea di un carcere che rieduchi chi ci entra. Chi ha commesso un reato deve mettersi in discussione e migliorarsi. Serve a lui e alla vittima del reato. Penso che un’esperienza di dolore come quella che ho vissuto io, e l’ho vissuta anche da donna di legge, ti metta di fronte alla scelta di voler conservare o meno l’umanità. Sorge la domanda: io ho subìto questo, che cosa ne faccio? E allora diventano anche scelte di vita. Tutto il tema del carcere, deve essere un’occasione per interrogarci sulla propria umanità e su quella della società».

E veniamo alla politica. Contro la violenza sulle donne si è fatto poco?
«Contro la violenza sulle donne, credo si siano fatti tanti passi in avanti. Ripetiamo sempre che la nostra legislazione è una legislazione avanzata e abbastanza completa. Quello che manca è una corretta applicazione delle norme che ci sono. A volte dipende da una non piena capacità di leggere le storie di violenza come il racconto di un possibile reato. E questo perché intervengono gli stereotipi di cui si è parlato prima. Chiaramente, ciascuna parte politica affronta il tema in base alla propria sensibilità e quindi c’è chi ritiene che si debbano aumentare le pene, i reati. Io non credo che questa sia la strada. Manca la capacità di affrontare questo tema a 360 gradi. E cioè sia attraverso interventi normativi sia investendo risorse, perché senza risorse nessuna azione politica produce effetto. Poi, bisogna capire che bisogna intervenire profondamente sulla società, sulla sua organizzazione, sulla sua struttura economica. Quindi, occuparsi di violenza vuol dire occuparsi del mondo in cui viviamo. Manca una visione più ampia che vada oltre la lettura riduttiva della violenza, senza vedere che c’è molto altro».

Chi subisce violenza, infatti, vive un prima e un dopo. Spesso il “dopo” è altrettanto drammatico. Le donne non denunciano per paura di rimanere sole, senza casa, senza denaro per vivere. Mancano delle misure di sostegno per il “dopo”?
«Paradossalmente è spesso la donna a dover lasciare la propria casa ed è spesso la donna a doversi ricostruire una vita, reinventarsi anche una professione. Com’è successo a me. È per questo che bisogna guardare a tutti i pezzi della violenza. C’è un prima, ma poi c’è tutto un dopo, una ricostruzione che va supportata. Proprio per questo Italia Viva aveva proposto il reddito di libertà. Nasceva da questa intuizione e da pratiche che già esistevano. L’idea era di intervenire e aiutare le donne vittime di violenza anche sul piano della violenza economica, perché questo è un grande tema un po’ inesplorato».

Cosa si sente di dire alle donne che stanno leggendo questa intervista?
«Voglio dire alle ragazze di avere sempre cura di sé, di coltivare sempre i loro desideri, di proteggere la loro libertà e di realizzarsi. E poi di non sentirsi mai sbagliate quando incontrano un uomo violento, la colpa non è mai delle donne. Alle ragazze dico: non dimenticate mai il vostro valore».

Avatar photo

Giornalista napoletana, classe 1992. Vive tra Napoli e Roma, si occupa di politica e giustizia con lo sguardo di chi crede che il garantismo sia il principio principe.