Meglio se rispettoso, della carriera di un’attrice che negli Ottanta ha stregato il pubblico e ispirato i maggiori autori della migliore commedia italiana del decennio. Il veterano Mario Monicelli (Speriamo che sia femmina), la talentuosa nuova leva di Francesco Nuti (Casablanca, Casablanca) e Massimo Troisi (Scusate il ritardo). Se possibile, da evitare anziane signore in lotta con l’avanzare degli anni (l’ultimo personaggio di Giuliana De Sio su grande schermo è la nonna di La verità, vi spiego, sull’amore del 2017). Un po’ di fantasia, cari sceneggiatori! E di educazione (non solo) cinefila. «È un peccato non dare alle attrici che valgono la possibilità di crescere attraverso ruoli interessanti – commenta De Sio –. Io guardo le serie tv, da ogni parte del mondo. E spesso mi domando: ma perché sono nata in questo Paese? Perché?».

Ha visto Chiami il mio agente! la fortunata serie francese, sul mondo del cinema e degli agenti delle star?
L’ho vista, certo. Dominique Besnehard, ideatore della serie, è stato il mio agente nel periodo in cui ho lavorato in Francia. Poi sono tornata in Italia, perché i parigini non mi stanno molto simpatici.

Meglio il contrario. I grandi attori di Francia, in trasferta italiana a lavorare con lei. Che ricordo ha di Catherine Deneuve, Leone d’Oro alla carriera alla prossima Mostra del Cinema di Venezia, sua compagna di set in “Speriamo che sia femmina”?
Non abbiamo molto legato. Deneuve stava un po’ sulle sue, quasi non ci parlavamo. Non per maleducazione, semplicemente non sapevamo che dirci. Ricordo però questo aneddoto. Mentre giravamo una scena, ci siamo dirette marcia indietro verso la stessa sedia. Sedere contro sedere, siamo cadute entrambe a gambe all’aria. Abbiamo cominciato a ridere, fu una situazione molto buffa.

Con Lino Ventura invece, è stata Emanuela Setti Carraro la giovane moglie del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, nel film di Giuseppe Ferrara Cento giorni a Palermo. Sono passati quarant’anni dalla strage mafiosa di via Carini, in cui i due persero la vita insieme al poliziotto Domenico Russo, assegnato alla scorta.
Quello di Cento giorni a Palermo fu un set diverso da qualsiasi altro. Giravamo a Palermo, a nove mesi di distanza dalla strage. La città era sotto shock, noi assediati dalla curiosità della gente. Io e Lino Ventura eravamo come due fantasmi, che si riproponevano alla fantasia collettiva. Mi sentivo distante anni luce da Emanuela Setti Carraro. Cercai di santificarmi il più possibile. Lei era una brava ragazza, di sani principi. Non che io non ne avessi, però non sono di chiesa e non mi sento attratta dalla divisa. Poverina, Emanuela era tanto innamorata da non rendersi conto di andare a morire. O forse lo sapeva. Credo che il generale dalla Chiesa sia stato un po’ egoista, a portarsela appresso. Accettai il ruolo, soprattutto per potere lavorare con Lino Ventura, celebre interprete del noir francese. Un genere che io amo molto.

Stessa emozione nel lavorare con Liv Ullmann, la grande attrice bergmaniana?
Liv Ullmann, di cui sono stata figlia in Speriamo che sia femmina, era la mia attrice di riferimento già da bambina. A 12-13 anni andavo al cinema da sola. A Cava de’ Tirreni, la città in cui sono nata, la mia famiglia abitava in un palazzo dove a piano terra c’era un cinema: il Metropolitan. Finiti i compiti, mamma mi dava i soldi e io scendevo a vedermi un film. Mo so’ scema ma da piccola ero intelligente (scherza ndr.), capivo tutto di Fellini, Kurosawa e, appunto, Bergman con la sua profondità e disperazione. Oggi, forse non lo reggerei. Come non ho mai potuto soffrire Antonioni, da spettatrice. Due palle! Lui però l’ho conosciuto, era un uomo simpaticissimo e pieno di tic. Mi voleva per un suo film, che poi non si fece. Ci rimasi male.

Una vera cinefila.
La mia educazione cinematografica è stata del tutto selvaggia. Mischiavo l’alto con il basso. Vedevo i musicarelli di Gianni Morandi e quelli con Al Bano e Romina Power, che mi piaceva assaje. Volevo essere bella come lei. Ma ricordo ancora quando Anna Magnani mi apparve in tv. C’era una signora che piangeva al telefono, la cosa più vera che avessi mai visto. Si trattava di Una voce umana, da Cocteau (episodio del film L’amore di Roberto Rossellini ndr.). Ero piccolina, immagino si sia trattato della mia inseminazione come attrice.

A un’altra signora dello spettacolo, la regista Andrée Ruth Shammah, deve invece la sua iniziazione come interprete teatrale.
Avevo diciannove anni quando debuttai a teatro, con La doppia incostanza di Marivaux. La regia dello spettacolo era di Andrée Ruth Shammah, di qualche anno più grande di me, anche lei una esordiente. Eravamo due ragazze che giocavano al teatro. Io però venivo dal successo dello sceneggiato televisivo Una donna, venti milioni di spettatori. Così, tanta gente era venuta a vedermi dal vivo. Andrée è un genio, la stimo moltissimo. Il Teatro Franco Parenti di Milano, che dirige, è un posto splendido e molto europeo. A Roma non esistono teatri così. L’Eliseo è un cadavere, lo stesso si può dire per il Valle. C’è l’India, vero. Ma il Parenti è comunque più bello (e ricchissimo di appuntamenti dal grande richiamo, anche d’estate. Come Peppe e Toni Servillo, con La parola canta, e la divina Charlotte Rampling in Shakespeare-Bach ndr.)

Proprio il Franco Parenti ha ospitato con successo una data del suo ultimo spettacolo: “Favolosa” è un raffinato woman show – realizzato da Cabiria produzioni – che riprenderà la tournée a fine mese (il 23 luglio a Benevento) prima di inanellare repliche per tutto agosto.
Uno spettacolo, per me davvero faticoso. Anche se al pubblico potrebbe non dare questa impressione, considerato che qui non mi agito molto sulla scena. In realtà, puoi farti il culo anche quando stai fermo. Leggo tre favole di Giambattista Basile. Autore del Seicento di inaudita ferocia, ancestrale, vero. Tante sue opere sono l’archetipo di racconti celebri, belli ma edulcorati. Come la Cenerentola di Walt Disney. La protagonista di La gatta Cenerentola di Basile è brutta, sciapa e pure con un cattivo carattere. L’esatto contrario della principessa disneyana. Trovo sia divertente confrontare come, nei secoli, per via del mutare di costumi, politica e governi, tanto sia cambiato. E constatare quanto gli originali restino comunque più affascinanti.

In “Favolosa”, canta anche: Pino Daniele, George Gershwin, Nino Rota… Sua sorella Teresa – famosa cantante – ha visto lo spettacolo?
No e non ci tengo particolarmente (ride ndr.). Se Teresa decidesse di vedere Favolosa a Roma (6 e 7 agosto) ne sarò felice, ma non le metto pressione. Insieme a me c’è il bravissimo chitarrista Sasà Flauto (Cinzia Gangarella al pianoforte e Marco Zurzolo al sax, altrettanto straordinari, completano la band ndr.) che per tanto tempo ha suonato con mia sorella. Il canto non è il mio mestiere, mi stanca parecchio.

Tranquilla, è bravissima. Un bel ruolo al cinema, però …
Non mi chiamano. Che stronzi!