Alla fine hanno parlato in contemporanea. Mario Draghi a palazzo Chigi con il primo ministro giapponese Fumo Kishida, l’evoluzione della guerra, le via della diplomazia, la cooperazione economica e commerciale. Giuseppe Conte nella nuova sede di via Campo Marzio dove ha presentato la scuola di politica dei 5 Stelle e i dieci docenti “tra cui molti premi Nobel” che cureranno le lezioni. L’ex premier è riuscito ad accumulare il necessario ritardo per far coincidere la sua performance di leader politico con la conferenza stampa di due leader.

È stato un classico della comunicazione contiana: puntare sempre al massimo dell’audience (le dirette Facebook erano sempre all’ora di cena dell’Italia in lockdown) e alla migliore visibilità. Ora che non è più premier, l’obiettivo è un po’ più difficile. E però ci prova lo stesso. Quasi sempre. Nell’unico modo possibile: accavallando i tempi, alzando i toni. E la scelta del lessico. Ieri, rivolto a Draghi, ha parlato di “rappresaglia” e di “ricatto” in relazione alla bocciatura del superbonus edilizio al 110%. E ci ha messo pure un ultimatum: “Guai se sarà messa la fiducia sul decreto Aiuti per famiglie e imprese” quello da 14 miliardi che il Movimento non ha votato perché contiene la norma sul termovalorizzatore a Roma. Una settimana fa, circa che poi si perde anche il conto delle intemerate verbali, sempre Conte aveva detto: “Mi incanteno davanti a palazzo Chigi se non ci ascoltano sul reddito minimo”.

Le regole della comunicazione
Regola uno, rubare (cercare di) la scena. Regola due: “Sta a metà tra il vittimismo e il tentativo di tornare ad un ribellismo che vorrebbe collocare il Movimento non solo alle origini ma a sinistra del Pd e più a sinistra di Articolo 1 che tanto è già tornato nel Pd” racconta un deputato in una pausa dell’aula che sta votando l’ennesimo decreto riaperture e fine dello stato di emergenza. L’apoteosi ieri è stata quando, nell’arco della stessa conferenza stampa, se n’è uscito con la seguente affermazione: “Inizio a pensare che qualcuno voglia spingere il Movimento fuori dal governo”.

Il qualcuno in questione è Mario Draghi che il giorno prima, nel successo personale e di leadership ottenuto nella plenaria del parlamento europeo a Strasburgo (“quando toccò a Conte era tutto un ridere, mormorii e battute” ricorda una eurodeputata Pd presente ieri come allora) ha bocciato per l’ennesima volta il superbonus al 110% per le ristrutturazioni edilizie. Il premier ha risposto ad una domanda dell’eurodeputata M5s Tiziana Beghin. Domanda provocatoria visto che Draghi già a dicembre aveva spiegato la sua contrarietà ad una norma che subisce in nome della sua vasta alleanza. Per il premier la misura è iniqua, produce debito aggiuntivo e non è progressiva perché privilegia i ceti più ricchi restituendo loro un incentivo che pesa però sulla tasche di tutti. In pratica si rifanno le terrazze al piano attico con i soldi degli italiani. Soprattutto, ha detto Draghi con tono perentorio, il superbonus innesca una dinamica distorta perché “toglie l’incentivo a trattare sul prezzo, i costi sono triplicati e si è creata una bolla che va al di là del caro materiali. “Non siamo d’accordo…” ha tagliato corto.

“Demonizza una norma che ci ha fatto crescere…”
Una bocciatura senza appello che è arrivata subito anche a Roma. “Anch’io non so di quale Draghi stiamo parlando – ha detto ieri Conte puntuto – se di quello che il giorno prima (nel decreto Aiuti, ndr) proroga il superbonus per tre mesi vantandosi di un pil cresciuto fino al 6,6% o di quello che il giorno dopo lo boicotta e demonizza davanti all’europarlamento…”. Parole velenose pronunciate con le giuste pause. La proroga – come Conte sa bene – è figlia di un patto di coalizione di cui fanno parte i 5 Stelle. La critica – di Draghi – è sempre la stessa, da mesi.

Rubare la scena. Nei tempi. E alzando i toni. Poco conta cosa resta nei fatti di tante sceneggiate. Sicuramente resta un ex premier che ha perso la misura e il rispetto per l’attuale premier e il suo governo, per un pezzo del suo stesso partito e anche per se stesso. Se le parole di Draghi sul superbonus fossero una “rappresaglia” alla “richiesta legittima” di farlo venire in aula a riferire sulla crisi ucraina sarebbe “gravissimo” ha rincarato la dose Conte. Tacendo del fatto che se Draghi andrà in aula nei prossimi giorni per parlare di armi inviate in Ucraina lo farà nell’ambito di quanto già previsto dal decreto Ucraina, ovverosia aggiornare l’aula ogni tre mesi, e non certo perché lo ha chiesto Conte. Che pensa anche di mettere ai voti le future comunicazioni del premier. Una sfida continua. Che si colora spesso di rabbia e anche rancore. Qualcuno parla di “invidia”.

La sindrome di Conte per Draghi
La sindrome di Conte per Draghi. E per Luigi Di Maio. Qualcuno prima o poi gli darà un nome. A qualcuno viene in mente il Malvolio shakespeariano della “Dodicesima notte”, che alla fine resta solo a consumarsi nella sua voglia di vendetta. Il corpaccione parlamentare 5 Stelle vive tutto ciò con imbarazzo. Pochi la vogliono commentare. “È palesemente ossessionato. Anche perché – spiega un deputato – siamo tutti terrorizzati dal fatto che sarà lui a fare le liste e nessuno osa fare le critiche che vorrebbe fare”. L’imbarazzo però è tanto. Aggravato dall’altra piaga aperta: la commissione Esteri del Senato, presieduta dal pro Putin Vito Petrocelli è rimasta senza senatori. Si sono tutti dimessi, anche i 5 Stelle, anche Airola, su ordine di Conte. Petrocelli non lascia l’incarico e si rivolgerà, ha promesso, alla Corte costituzionale.

Un cortocircuito totale. Conte prevede “una recessione pazzesca se la guerra andrà avanti”. Accusa il governo in carica di “voler trascinare l’Italia in guerra contro la Russia”, affermazione molto grave in sé e soprattutto perché falsa e non concede una parola al suo ministro degli Esteri che cerca in silenzio di lavorare sui canali diplomatici. “Quale bettola o quale Bar Sport frequenta Conte per fare esternazioni così farneticanti e gravi?” chiede Osvaldo Napoli, deputato di Azione.

L’imbarazzo del Pd
L’imbarazzo cresce ogni giorno di più anche nel Pd. Al segretario Letta, già messo all’indice per la posizione atlantista e l’invio delle armi, ieri Conte ha mandato un altro messaggio. “Ci sono principi che per noi non sono negoziabili, la cultura ecologica e il pacifismo sono tra quelli”. Perché Conte è convinto che anche il termovalorizzatore sia stata una rappresaglia. Questa volta del Nazareno, però. “Alleanze col Pd? Non sempre ci potranno essere le condizioni” rincara l’ex premier. Il segretario dem con la pazienza di Giobbe allarga le braccia e guarda avanti: “I distinguo di Conte? Io guardo a quello che ci unisce che è molto più di ciò che ci divide”. Ma è il primo a sapere che così “il campo largo” non sta insieme neppure un giorno.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.