C’è una categoria giuridica, la colpevolezza, che, stante il suo nome, parrebbe funzionale a condannare. Ma già si puniva prima che essa fosse considerata necessaria per quel fine. Prima poteva essere, infatti, che qualcuno fosse reputato responsabile al pari di come lo si suole ritenere un fenomeno naturale, poniamo un fulmine, cioè per il mero aver causato un danno. Poi l’evolversi della civiltà giuridica ha condotto a richiedere che per punire, e per come punire, si debba tener conto della reale condizione personale, rispetto al suo agire, di chi pure, materialmente, quel danno l’abbia prodotto, cioè della sua colpevolezza: dunque, del suo essere stato o meno in grado di dominare la sua condotta e, pur quando lo si ritenga colpevole, degli elementi che abbiano inciso su di essa (potendo risultare ben diverse le caratteristiche della colpevolezza con cui venga commesso un medesimo reato). In sostanza, quella categoria ci dice che non si punisce condannando, al fine di gestire lo sgomento che sia derivato da un fatto offensivo, chi dal punto di vista oggettivo ne sia stato artefice, senza porsi questioni ulteriori (e spiegando quel medesimo fatto, in modo rassicurante, con riguardo al mero volere di tale persona); ma che si può punire solo in rapporto, e dando rilievo, a una rappresentazione reale, cioè non riduttiva, del soggetto agente. Sebbene l’attuazione di simile principio resti ampiamente inadeguata.

Eppure, sembra che alcuni vogliano tornare indietro: a una società ancestrale della ritorsione per il mero fatto, salvo barattare, oggi, l’enfasi sul punire sbrigativo ed esemplare come strumento di prevenzione, quando ha soltanto, invece, finalità di consenso politico. Così, ad esempio, viene proposto di annullare, modificando la definizione del vizio di mente, le pur timide aperture giurisprudenziali a considerare rilevanti, onde riconoscerlo, non solo le malattie psichiatriche classiche ma anche taluni disturbi gravi della personalità: e senza ricordare, per lo più, che il vizio totale di mente, riscontrata la pericolosità dell’interessato, conduce pur sempre all’applicazione (anche detentiva nelle REMS) delle misure di sicurezza.

Come pure si constata la persistente indifferenza per il fatto che vi è in carcere una grande quantità di detenuti i quali, pur riconosciuti capaci d’intendere e di volere o affetti da un vizio solo parziale di mente, risultano portatori di condizioni psichiche patologiche o comunque estremamente problematiche, oppure risultano averle acquisite nello stato di detenzione: come riprova il numero enorme dei suicidi e quello molto maggiore dei tentati suicidi in carcere, ma anche l’uso diffusissimo, fra i reclusi, degli psicofarmaci. Tutti detenuti per i quali, al pari dei reclusi tossicodipendenti, la condizione detentiva, salvo eccezioni particolari, è inappropriata e che avrebbero bisogno di opportunità curative credibili.

Gli atteggiamenti suddetti contrastano in maniera radicale rispetto all’agire in senso preventivo, e anzi legittimano il non fare prevenzione: se si progetta di ignorare le complessità dei comportamenti umani, il che riguarderà soprattutto gli autori di reato più fragili, ne trae giustificazione, per esempio, l’additare come un lusso umanitario l’opera dei servizi sociali: costituenti, invece, l’unico filtro efficace rispetto alle situazioni psicologiche a rischio, suscettibili di sfociare (senza che incida in alcun modo la durezza della pena minacciata) in delitti efferati. Ove si ritenga che l’importante risulti condannare in modo esemplare e aproblematico, allora il messaggio è che non occorre altro, e che la società può ritenersi indenne da qualsiasi forma di corresponsabilità rispetto ai contesti in cui i delitti maturano.

Ne deriva che le pene andrebbero bene così come sono, o ancor più dure. Quando la Costituzione, viceversa, evidenzia come la prevenzione stabile nel tempo sia quella che, anche attraverso il contenuto delle sanzioni penali, cerca di motivare sia i consociati, sia chi abbia commesso un reato, a scelte personali di rispetto della legge. E infatti, se non c’è motivazione, ma solo intimidazione e neutralizzazione, le occasioni per delinquere saranno pur sempre sfruttate da molti, e ai soggetti neutralizzati se ne sostituiranno altri. Mentre nulla rafforza di più l’autorevolezza della norma violata (e nulla è temuto maggiormente dalle compagini criminali, perché le destabilizza) del fatto che proprio chi l’abbia trasgredita si esponga a riconoscerne il valore e s’impegni in senso antitetico al reato commesso.

Affinché questo accada, tuttavia, la pena non può essere costruita come una ritorsione, che del resto non richiede alcunché al condannato, bensì lo dev’essere come un programma, di natura finché possibile prescrittiva e adeguatamente supportato, il quale risulti significativo per il rapporto del condannato stesso con la società e con la vittima. L’aver concluso per la capacità d’intendere e volere dell’autore di un fatto illecito non può fungere da alibi, quindi, per disinteressarsi della realtà complessa di quella persona: posto che un programma è delineabile solo dando rilievo a tale realtà.
La semplificazione ritorsiva non giova neppure alle vittime. Non dà loro alcunché. Al contrario le obbliga, per far valere la gravità di un’ingiustizia subìta, a chiedere il massimo danno per il colpevole. È solo nel confronto con la complessità umana, piuttosto, che può trovare una risposta non riduttiva il bisogno di verità rispetto alle tragedie che accadono e l’esigenza che, almeno, se ne traggano elementi per cercare di ostacolarne il ripetersi da parte di altri. Ed è solo nell’ambito di un programma che la vittima può vedere riconosciuta, non soltanto con parole formali, da parte di chi l’abbia commessa l’ingiustizia irreversibilmente verificatasi.

Luciano Eusebi

Autore

Professore ordinario di diritto penale