La riflessione
Giustizia lumaca, condanna anche per gli innocenti
La recente conclusione di un processo penale che ha riguardato fatti di oltre vent’anni addietro suggerisce alcune riflessioni. È inaccettabile essere sottoposti a un giudizio per così tanto tempo perché si possa giungere a sentenza, peraltro di primo grado, tenendo presente che passeranno altri anni perché la decisione diventi definitiva. Che gli imputati vengano giudicati colpevoli oppure assolti, che le persone offese vedano o meno soddisfatte le loro istanze, una dimensione temporale così lunga rappresenta una condanna per tutti che spesso finisce con il travolgere la vita di persone, famiglie e aziende. Giudicare una persona per fatti commessi una vita indietro è in ogni caso un errore perché si sta valutando un soggetto che il tempo ha certamente cambiato non soltanto anagraficamente ma anche sul piano sociale e lavorativo. L’esperienza mi permette di affermare che il problema ha più cause.
La prima è l’eccessiva durata del termine di prescrizione. Perché parlo di prescrizione? Perché se il termine entro il quale arrivare alla conclusione del processo fosse ragionevolmente più breve, non assisteremmo mai a sentenze che intervengono a decine di anni dai fatti: l’intero apparato giudiziario sarebbe costretto a funzionare meglio e ad assicurare la conclusione dei giudizi in tempi ragionevoli. Negli ultimi tempi si è a lungo dibattuto sull’argomento, con la contrapposizione tra l’avvocatura e il ministro Bonafede, sordo con il suo governo nel non ascoltare le istanze provenienti da tutti gli operatori del diritto e nell’approvare una scellerata riforma che, abrogando la prescrizione dopo il primo grado, allungherà ancor di più la durata dei processi. Poiché l’istituto della prescrizione, correlato al principio costituzionale della durata ragionevole, è la principale la valvola di sicurezza per assicurare i tempi del processo penale, o si mette mano all’immediata riforma di quanto il pessimo legislatore degli ultimi due anni ha varato oppure assisteremo a processi la cui durata sarà sempre maggiore, potenzialmente eterna. Le ultime erronee scelte legislative, inoltre, hanno ancor più disincentivato il ricorso ai riti alternativi, oramai spesso inaccessibili anche per titolo di reato: ciò determinerà l’ulteriore ingolfamento del carico processuale del dibattimento.
La seconda ragione che individuo è la durata delle indagini preliminari: spesso i processi arrivano a dibattimento a distanza di anni rispetto ai fatti da verificare, rendendo difficoltoso l’accertamento giudiziario e chiedendo al giudice accelerazioni che mal si conciliano con la serenità che deve contraddistinguere quello stesso accertamento dibattimentale. Ciò ha una causa ancora una volta legislativa: le indagini preliminari sono di fatto prive di sanzionate regole temporali nel senso che, se la legge formalmente limita la durata delle indagini da sei fino a un massimo di 18 mesi, in realtà il pubblico ministero (con la polizia giudiziaria che opera sotto la sua direzione) può indagare su fatti e persone per tutto il tempo che vuole (spesso molti anni, con la tecnica degli “stralci”) non temendo alcuna sanzione processuale. Evidente che indagini più brevi avrebbero riflessi positivi sulla durata complessiva del giudizio. Vi sono poi le carenze organizzative degli uffici giudiziari. Ciò è dovuto in primo luogo all’atavica carenza di risorse economiche che lo Stato destina al settore giustizia (meno dell’uno per cento del bilancio), come se chiedere giustizia fosse un dessert da preferire o meno al termine di un pranzo e non invece il fulcro su cui ruota lo stato di diritto.
La domanda di giustizia, alla stregua della tutela della salute, rappresenta il perno indispensabile in un sistema democratico. Qui voglio accennare anche a quelle strutture giudiziarie, spesso fatiscenti, che purtroppo sono presenti soprattutto al Sud, e al settore civile dove la durata delle cause è argomento che danneggia tutti i cittadini e i loro avvocati, costretti insieme a non vedere i risultati dei propri diritti e del proprio lavoro in tempi ragionevoli. Siamo poi di fronte ad aspetti organizzativi delle attività di cancelleria dove prevale l’irrazionalità, dove la parola ammodernamento nei mezzi è un miraggio e dove esiste invece un personale insufficiente per numero e per esperienza nell’informatica che è la strada migliore per velocizzare il sistema giustizia. A questo punto si deve toccare un tasto particolarmente dolente soprattutto in questi giorni in cui gli avvocati vorrebbero riprendere la quotidiana attività giudiziaria ma ciò non viene loro consentito per la penuria del personale giudiziario e anche a causa di provvedimenti altalenanti tra i vari uffici che di fatto hanno confinato l’attività giudiziaria a un esercizio per pochi eletti. Va stigmatizzata un’altra decisione poco saggia di questo governo ovvero quella di delegare ai singoli capi degli uffici la facoltà di stabilire regole processuali e di individuare i processi da celebrare.
E così, mentre il Paese riparte pur con tutte le cautele del caso, i tribunali restano deserte cattedrali dove gli uffici funzionano pochissimo e male, dove agli avvocati neppure è concesso di entrare e dove si assiste a situazioni mortificanti della dignità della funzione difensiva. Il triste risultato è davanti agli occhi di tutti: aule deserte e processi penali che vengono rinviati, con un certo ulteriore ingolfamento della già gravata macchina giudiziaria. E allora l’unica via è quella della ripresa effettiva e piena di tutte le attività giudiziarie alla stregua di quanto avviene per tutte le attività del Paese che registri finalmente una riorganizzazione della macchina giudiziaria dal profondo che restituisca la centralità del processo nel sistema democratico. Facendo tesoro ancora una volta della storia che insegna che soltanto un giudizio che si celebra in tempi ragionevoli consente il reale accertamento della verità, come avvenne nella occasione emblematica del compianto Enzo Tortora che, dopo un ingiusto arresto e un ingiusto verdetto di colpevolezza in primo grado, seppe resistere al male che insorgeva per quanto aveva patito, per avere la forza di chiedere ai giudici dell’appello – cosa possibile per il non eccessivo tempo trascorso tra primo e secondo grado – di riesaminare i soggetti addotti come prove a suo carico così che i secondi giudici potessero convincersi che le carte processuali gridavano la sua innocenza.
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