Due prigionie diverse, ma entrambe crudeli
Giustizia perfida e stracciona: si accanisce con Emilio Fede e Cesare Battisti

Chissà perché mi è tornato nella mente “Pietà l’è morta”, il famoso canto partigiano scritto nel 1944 da Nuto Revelli, mentre nelle stesse giornate assistevo allo scempio sul riposo notturno del novantenne Emilio Fede e al digiuno di Cesare Battisti, “l’atto più degno che potessi fare per evitare di morire in ginocchio”. Ho pensato ai loro corpi legati a diverse prigionie, ma che avevano a che fare tutte e due con la crudeltà della giustizia, con la sua insensatezza, con la casualità di roulettes russe impazzite.
Ha senso che un uomo di novant’anni, che un corpo e una mente per i quali i progetti di vita sono ridotti al lumicino debbano ancora subire forme di prigionia? Non ha senso alcuno, eppure, nel silenzio generale, nelle carceri ci sono questi corpi sequestrati, spesso malati, sempre dolenti. Ci sono perché violenta è la necessità di vendetta della cosiddetta funzione “retributiva” della pena, la fotocopia progressista dell’occhio per occhio dente per dente. Ci sono perché magari qualche aggravante “osta” all’applicazione umana della pena. E sono lasciati lì a porre termine ai loro giorni, magari di vite non proprio commendevoli, ma pur sempre vite. Troncate dalla pena di morte all’italiana, quella dell’imbroglio e dell’ipocrisia.
Emilio Fede è stato processato e condannato per qualcosa di assurdo, dopo esser stato spiato insieme ai tanti ospiti di serate trascorse in casa di Silvio Berlusconi. Ed essendo stato il “capo” assolto in via definitiva, la vendetta giudiziaria della moralità di Stato si è abbattuta su altri mille rivoli laterali che hanno colpito amici e testimoni. Perché la giustizia giacobina ha questo effetto-tenaglia che, se ti pizzica, non te la scrolli più di dosso. Emilio deve restituire qualcosa allo Stato. Per esser stato amico di Berlusconi, prima di tutto. Per esser stato un direttore del Tg4 colto e irriverente. Per la sua vita di pokerista beffardo. Per l’ironia nei nomi storpiati (che il povero Travaglio non riesce a imitare) e i colpi che gli arrivavano alle spalle con i fuorionda carpiti mentre nel bel mezzo dei servizi sulla guerra del golfo lui si lasciava scappare un “bella cosciolona” e poi non se ne pentiva.
Sembra quasi una nemesi storica il fatto che, mentre gli muore la moglie e lui compie novant’anni, la sua vita e il suo corpo subiscano la violazione di una visita notturna della polizia quasi a marchiare a fuoco il suo passato di nottambulo. Perché un tribunale di sorveglianza lo vuole prigioniero sempre, e rispettoso di orari e spostamenti. La logica vorrebbe che si dicesse agli zelanti poliziotti e ai burocrati in toga: ma lasciatelo in pace! Ha sepolto la moglie con cui sperava di poter spegnere le candeline, e voi siete ansiosi di sapere in quale letto sta dormendo? E magari anche con chi, visti i reati per cui è stato condannato? Ma il suo corpo non è suo da almeno quattro anni, il suo corpo è dello Stato occhiuto e proprietario implacabile.
Il che sposta l’attenzione su un altro, ben diverso prigioniero, Cesare Battisti. Il quale, mentre Fede era schiacciato da quel lutto che avrebbe preferito non dover trascorrere in compagnia notturna di due poliziotti, aveva girato la boa dei venti giorni di sciopero della fame. Non certo per una sfida allo Stato che lasciasse emergere il trasgressivo che un giorno lui era stato, fino a privare altri della vita. Ma per illuminare le violazioni di legalità che stava subendo, essendo diventato lui stesso vittima di una forza dello Stato silenziosa quanto implacabile. Una sorta di ergastolo ostativo applicato in modo arbitrario ed extragiudiziale.
Non mi interessa investigare per sapere se questo ex militante di sinistra e terrorista sia simpatico. E neanche se le condanne per i reati che ha commesso (e ammesso) siano state eque, visto che lui stesso le ha accettate, nonostante un percorso di commutazione dell’ergastolo fosse stato tentato dal suo avvocato Davide Steccanella. Mi interessa invece sapere perché, trascorsi i sei mesi di isolamento previsti dalla sentenza, gliene siano stati inflitti altri ventiquattro, cioè due anni, fuori dalla legge. Perché dopo un processo milanese, lui sia stato mandato in luoghi lontani come la Sardegna e la Calabria. Perché sia considerato ancora un terrorista e come tale sia classificato nella detenzione. Ha sofferto e sopportato per due anni e mezzo, dopo che era stato braccato nella sua latitanza più di un boss, dopo che il suo corpo era stato esibito come un trofeo da due ministri (vergogna), mentre i suoi occhi disperati vagavano nel nulla. Tagliategli la testa, ho pensato in quei momenti, perché mi era parso già di vederla rotolare.
Di Emilio Fede oggi non si occupa quasi nessuno, qualche cronaca dopo l’irruzione notturna della polizia e lo sdegno, tra i politici, della sola capogruppo di Forza Italia al Senato Annamaria Bernini. Nessuno, o quasi, a vedere la contraddizione tra un novantenne abbandonato dai più ma pur sempre ancora prigioniero di questa giustizia stracciona ma eterna nella sua perfidia. Ma le baionette sono pronte per il nemico di sempre, quel Cesare Battisti odiato come assassino e invidiato come lo scrittore coccolato nei salotti parigini, ma perfetto “tipo d’autore” per ogni nefandezza. Quanto lui ha deciso di rinunciare al cibo “fino alla morte”, gli ha risposto Sergio D’Elia, il fondatore di “Nessuno tocchi Caino”, che si è messo al suo fianco, come fosse Pannella, a digiunare “fino alla vita”, la vita del diritto. Ma intorno intanto fischiavano le pallottole.
Da Giorgia Meloni a Maurizio Gasparri: pietà l’è morta, appunto. Contro il nemico. Gli altri, quelli che comunque sostenevano il diritto di Battisti a una detenzione normale, si premuravano di premettere che comunque lui era una specie di mostro e che a loro stava sulle palle. Oltre a essere ripugnante in quanto assassino, ovviamente. Ma c’è anche Vittorio Feltri, per fortuna. Quello costretto a lasciare l’inutile Ordine della nostra categoria, probabilmente perché è il più bravo giornalista esistente.
Feltri parla di dignità e del diritto di ogni detenuto, anche un pluriomicida, a “godere di un’esistenza non umiliante”. E si spinge a chiedere alla ministra Cartabia di eliminare l’ergastolo ostativo e l’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario. Siamo parlando di Vittorio Feltri, di quel direttore considerato una specie di fascista volgare dai perbenisti del “sono garantista però..”. Lui non usa nessun “però” nel chiedere, non solo per Battisti, alla ministra “di provvedere ad eliminare certe gratuite crudeltà, che contrastano con le caratteristiche di un Paese civile”. Non sempre “Pietà l’è morta”.
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