Sono decenni che andiamo a vedere i film con Robert De Niro, l’avevamo tanto amato, poi si era un po’ smarrito e l’avevamo perso, ma oggi che taglia il bel traguardo degli ottant’anni lo amiamo come non mai. È inevitabilmente invecchiato ma gli occhi ridenti sono sempre quelli nel retrovisore di un taxi (Taxi driver) o di quando guarda in quelli di Elisabeth McGovern (C’era una volta in America). E dunque la nostra vita, come quella delle generazioni più giovani, s’inteccia con questo attore tra i più grandi dell’intera storia del cinema, accanto agli Humphrey Bogart, ai James Cagney, agli Spencer Tracy, ai Paul Newman. E a Marlon Brando, forse il riferimento più immediato in quanto a carisma e forza interpretativa.

Ma che cos’ha De Niro che gli altri non hanno? Perché col passare degli anni quel sorrisetto ironico, quelle grinze attorno agli occhi, quel neo sulla guancia, quel ripetere ossessivamente le stesse parole, tutto questo “denirismo” ci colpisce, ci fa sorridere, ci impressiona, ci commuove? Sì, è un bell’uomo ma come ce ne sono tanti, non come il meraviglioso Brando, non ha una voce indimenticabile, e allora cosa? Il miracolo di Robert De Niro sta in questo: che riesce a essere un camaleonte ma è sempre De Niro. Non sono molti i casi di attori che riescono a cambiare radicalmente pelle pur restando se stessi. Bogart in fondo faceva più o meno sempre la stessa parte e anche Cagney, persino il sublime Cary Grant alla fine è sempre il dandy simpatico e fascinoso che tutti amiamo. De Niro invece è stato un tassista, un missionario, un sassofonista, un depravato, un gangster, un prete, un marine, un analfabeta, un poliziotto, uno scassinatore, un fallito, un giovane mafioso, un prete, un ebreo, un irlandese, un italiano: tutta l’America in un unico volto. Ecco perché è l’attore di Martin Scorsese, cioè del regista che ha fatto della memoria americana l’avventura della sua opera cinematografica e che individuò fin dal lontano Mean streets (1973) in quell’attore versatile come nessuno il volto di tutta l’America tardo-novecentesca.

Bob” ha avuto una carriera sfolgorante sin dall’inizio, inanellando almeno una decina di capolavori assoluti, poi nei primi anni Duemila – proprio come successe a Brando – ha fatto il verso a sé stesso in film che nemmeno si ricordano più ma poi è tornato grande, fino ai giorni nostri. Se chiudiamo gli occhi, quale immagine di “Bob” ci viene in mente? Fatelo, questo gioco: non vi verrà una sola immagine ma tante. Pesto, sul ring. Al volante in una New York nera. Giovane boss a Little Italy. Mirando a un cervo, “un colpo solo, un colpo solo”. E anche (America a parte) giovane rampollo di un possidente nella provincia di Parma nel grande affresco di Bertolucci. Nessuno è stato così poliedrico, nessuno così “cattivo” e così “umano”. E na parola infine la vorremmo dire, da spettatori italiani, sulla voce di De Niro, quella del compianto Ferruccio Amendola, senza il quale forse Taxi driver in Italia non sarebbe stato Taxi driver, quella voce di velluto anche quando doppiava lui nella scena della roulette russa per non dire del leggendario “Dici a me? Ma dici a me? Ma dici a me? Eh, non ci sono che io qui…”. Robert De Niro in un certo senso è il cinema dei nostri anni, e anche di quelli che devono ancora venire. L’incanto della sua recitazione è una gioia per questa forma di vita che è il cinema. Come direbbe lui ripetendo le parole: “Buon compleanno Bob, buon compleanno Bob”.