La recensione
Gli anni ’80 e l’ennesima lost generation sballata: ‘Meno di zero’ è un colpo alla letteratura mondiale
Quando nel 1985 uscì “Meno di zero” di un giovanissimo autore esordiente americano, Bret Easton Ellis, fu un colpo alla letteratura mondiale. Tullio Pironti, geniale editore napoletano, lo pubblicò in Italia e fu un grande successo. Era una cosa nuova davvero, un romanzo in presa diretta sui fantasmagorici anni Ottanta e l’ennesima lost generation sballata: di acidi, musica, sesso e vuoto esistenziale. “Meno di zero” lo leggemmo subito – eravamo giovani e parlava se non proprio di noi perlomeno dei coetanei della West coast – e contemporaneamente si leggevano “Le mille luci di New York” di Jay Mc Inerney e i romanzi di David Leavitt e ovunque c’era quell’aria degli Ottanta americani che era la moltiplicazione per mille rispetto agli stessi Ottanta della nostra Italietta pentapartitica ma l’atmosfera era la stessa, da belli e dannati – e condannati a vivere. In quel particolare momento era arrivata la grande libertà dei giovani soffiata dal vento degli anni Sessanta e Settanta ma era una libertà di cui gli stessi giovani americani non sapevano che farsene, e se eri un rampollo della ricca California meridionale l’esistenza rifluiva nell’acquisto di “roba”, dischi, polo Ralph Lauren e pantaloni Calvin Klein. Molto sesso e molta noia. Solo subito dopo, dice Bret, vennero le overdose e i suicidi.
Da noi era tutto in sedicesimo ma nell’aria c’era qualcosa di simile, veniva chiamato il “riflusso”, e la musica sparata nelle discoteche era quella. Meno male che fuori c’era Bruce Springsteen. Quarant’anni dopo eccoci ingrassati e con un bel po’ di capelli bianchi, presumiamo anche Mr. Bret, sono volati i Novanta, il primo decennio del nuovo millennio e metà del secondo e tra le mani abbiamo queste settecento pagine del nuovo Ellis, “Le schegge” (Einaudi, traduzione di Giuseppe Culicchia), che ci porta esattamente al punto di partenza, cioè dalle parti di “Meno di zero” perché qui è Bret in prima persona che parla del periodo nel quale il Narratore di
“Le schegge” si accinge a scrivere “Meno di zero” proprio come il Narratore delle Recherche dopo cinquemila pagine capisce che può iniziare a fare lo scrittore. Diciamolo chiaramente: se il romanzo d’esordio di Bret Easton Ellis fu un cazzotto nello stomaco perché era in presa diretta, quarant’anni dopo gli stessi
“fatti” si ammantano dell’acidulo sapore del ricordo. E se possibile il risultato è ugualmente forte grazie alla sapienza narrativa dello scrittore che dopo tredici anni di silenzio e qualche prova discutibile ci regala un librone da divorare in un giorno e una notte. «Non sapevo esattamente come descrivere “Meno di zero”.
E non volevo farlo: era su di me ma non c’era una storia, c’erano scene ma non aveva una vera e propria trama, c’era solo un tono sordo, divagante, che cercavo di perfezionare», dice Bret, il Narratore, al padre della sua ragazza (che per dare un’idea ci sta provando con lui: l’omosessualità è presente ovunque). Nemmeno oggi Ellis sa dire con esattezza quale miracolo fece quarant’anni fa. Ecco dunque Bret, Thom, Debbie, Susan, Ryan, Matt e gli altri sprecare il tempo incapsulati nel loro guscio di lusso quando, in quell’estate del 1981, succedono cose strane, terribili, e arriva nella loro scuola di super-ricchi un certo Robert Mallory… Ma non andiamo oltre questa semplice ossatura narrativa perché l’importante sono le ragioni profonde che stanno a monte del bisogno dello scrittore di fermare sulla pagina le emozioni, violentissime, di quel momento. Ellis insomma spiattella Bret, cioè se stesso, e con sé fotografa l’anima di una generazione, il colore e il clima di quegli anni, un colore accecante e buio al tempo stesso, dorato e nero, un clima caldissimo e gelido.
Tutto è contrastante, qui, al sole di una Los Angeles che ci pare di conoscere a menadito – il Sunset, Malibu, Beverly, Mulholland, quanti film, quante canzoni – un contrasto inaudito tra l’azzurro delle piscine delle villone di questi giovani non ancora maggiorenni strafatti di Qaaluda, coca e Valium e abbuffati di sesso di tutti i tipi, di Porsche e cravatte Regimental, di musica a tutto volume degli Ultravox e Duran Duran e Blondie (l’elenco qui è sterminato), e la trama super-thriller un po’ splatter che s’incrocia con la routine di una stagione completamente falsata dai soldi e dall’erba e bagnata dal sangue di vittime di barbarie di vario tipo. Naturalmente la storia-thrilling accompagna il romanzo di formazione e i due pilastri del libro si sorreggono a vicenda in un equilibrio che ha del grandioso, ma noi restiamo più accecati dalla minuscola tragedia – la contraddizione è voluta – di una generation che ancora una volta è maledetta da questa specie di Vietnam dell’opulenza come a voler mettere agli atti che non c’era pace tra le palme della California dei luminosi Ottanta, e non solo lì.
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