L’intellettuale è una figura che ha attraversato il Novecento. Sabino Cassese, che ha appena pubblicato un chiaro e dotto libro sul tema (Intellettuali, Il Mulino, Bologna 2021, pagine 123, euro 12) ne colloca la nascita con l’affaire Dreyfus quando Émile Zola lanciò allora un J’accuse dalle pagine del giornale L’Aurore. In verità, questa figura si lega al secolo scorso per un motivo più essenziale, perché quello è stato il secolo delle “ideocrazie” per antonomasia, cioè del progetto, rivelatosi abbastanza velleitario, di imporre, con le buone o (più spesso: da cui i totalitarismi) le cattive, un’idea considerata vera, buona, giusta, alla storia, alla realtà recalcitrante. E chi più di un individuo aduso a trafficare con opinioni e concetti, cioè l’intellettuale, poteva individuare i contorni dell’idea giusta e delinearne anche i tempi e i modi della sua “applicazione” pratica?

Più in generale, quello ideocratico è il progetto più proprio della modernità, almeno nel filone che ne ha segnato il tono e la cifra. Ovviamente, ove c’è una tendenza ci sono anche le forze che la avversano. E Cassese non è certo tenero con i vari antiintellettualismi che si sono affacciati nella storia, come l’altro lato della medaglia, per lui il lato d’ombra. Eppure, c’è lotta e lotta all’intellettualismo. C’è infatti un antiintellettualismo proprio di chi non mostra comprensione per i vari irrazionalismi ma, con un movimento tutto razionale, ritiene che non possa esserci passaggio, più o meno necessitato, fra una teoria che comprenderebbe la realtà e una prassi a cui il risultato della comprensione possa essere e vada “applicato” in modo più o meno aderente. La comprensione sorge a cose fatte e l’azione umana si svolge quasi sempre in un cono d’ombra, che aumenta con le dimensioni a cui essa intende applicarsi, se non altro perché si interseca con altre mille e parimenti degne intenzioni-azioni umane. La sintesi volitivo-pratica, meglio che allo scienziato sociale, spetta perciò al politico, che ha intuito e visione e non solo dotte conoscenze. Questo ci dice la filosofia. Nessuno pertanto può pretendere di avere un ruolo privilegiato nella conversazione pubblica.

Il pregiudizio epistocratico, cioè favorevole al governo dei competenti, che percorre le brillanti e stimolanti pagine di Cassese, non regge perciò a mio avviso da un punto di vista teorico. E mai come in questo caso la storia, l’empiria, conferma la teoria. Tutte le volte che l’epistocrazia si è provata a governare ha generato problemi non indifferenti se non lutti e tragedie. Come si può perciò affermare, come fa lo studioso americano Jason Brennan, che il governo dei competenti, come la vecchia utopia platonica dei re-filosofi, “condurrebbe a migliori decisioni, più giustizia, più prosperità” (p.74)? Cosa deve allora fare l’intellettuale? Isolarsi nel mondo degli studi, e disinteressarsi del mondo, come fa lo specialista? Oppure unirsi a un partito e, come “intellettuale organico”, “prostituire” (perché di questo in fondo si tratta), la sua scienza agli interessi politici? A me sembrerebbe, come anche a Cassese, che non sono queste strade auspicabili per chi voglia dare il suo contributo intellettuale alla società in cui vive. Ci vorrebbe per intanto, da parte dell’intellettuale, un gran bagno di umiltà.

Se conoscere, come diceva Benedetto Croce (che ritorna spesso nelle pagine di Cassese), è solo “un soffrire più in alto”, ma forse sarebbe meglio dire “in modo diverso”, il compito dell’intellettuale potrebbe essere non quello di arrogarsi privilegi che non ha ma di far vedere sempre l’altro lato delle questioni, i disvalori che sempre possono accompagnare i più sublimi a “nobili”, valori umani. In sostanza di richiamare costantemente al concetto di limite, facendo i conti con la costitutiva, non contingente, imperfezione umana. C’è sempre un “punto critico” che porta ogni concetto o valore a contraddirsi e a diventare il il contrario di se stesso. Ha proprio ragione Cassese quando dice che «all’intellettuale, nella funzione che gli è propria, non fa male una certa dose di umiltà. Non deve ritenersi un ‘unto’ e pensare che non risponde a nessuno» (p.94).