Scene dalla fase due. Ufficio postale, Milano centro: mi trovo in una lunga coda fuori dall’ufficio, oltre i vetri si scorge una ventina di sedie vuote. Entro a chiedere se potrei sedermi su una di quelle sedie, ovviamente rispettando il mio turno; sarei più isolato che seduto a terra, all’esterno. Mi si risponde di no, perché le regole lo impediscono, e se insisto che la regola è irrazionale saranno costretti a chiamare la polizia. Altro episodio, stavolta da voyeur. Due ragazze al bar, senza mascherina: nella foga del discorso si tengono strette per le mani. Interviene il cameriere e vuol sapere se siano parenti: «Sì, sì, cugine» rispondono. Appena quello si è allontanato, una delle due dice ridendo all’altra: «Se sapesse quanto sono stronze le mie cugine vere…». È fin troppo facile illustrare il lato comico-grottesco di questi tempi confusi, tra ottusa obbedienza e pulcinellesca astuzia; la tragedia non esclude la farsa. La-vita-ai-tempi-del-covid sta diventando un genere letterario.

Data l’impossibilità di conoscere chi è contagioso e chi no (inutile riaprire la questione dei tamponi, e del perché solo il Veneto abbia acquistato per tempo macchine che funzionano con qualunque reagente), ai governanti si aprivano due strade: o dare ai cittadini poche indicazioni di buon senso (non stare senza protezioni a meno di un metro e mezzo da chi può emettere droplets, tranne che non sia un convivente e tranne casi di forza maggiore come incendi, evacuazione di edifici, salvataggi), sostanzialmente fidandosi dei cittadini, o emanare decreti minuziosi e spesso inapplicabili, quando non contraddittori, sostenuti da controlli aleatori e sanzioni esagerate. Il governo ha optato per la seconda soluzione, dando spazio così al conflitto tra ipocondriaci e spavaldi, tra i super-puntigliosi e i fatalisti, per non dire dei negazionisti e vitalisti di destra («portare la mascherina è da vigliacchi»). Ma la tentazione più pericolosa, dal punto di vista civile, è un’altra: il trash televisivo l’ha fatta emergere emblematicamente.

Clizia Incorvaia e Paolo Ciavarro, personaggi noti al gossip e innamoratissimi, dovevano riunirsi dopo tre mesi di lontananza, in diretta nel programma serale di Barbara D’Urso; nel pomeriggio gli autori hanno saputo che i due si erano già visti e abbracciati il giorno prima, per un servizio fotografico. Ciò nonostante, la commovente reunion si è celebrata lo stesso, loro due trepidanti con guanti e mascherina, più un’orchestra folkloristica a fare da pronuba intorno a un giaciglio matrimoniale cosparso di petali di rose; tra gli sdilinquimenti in studio hanno fatto finta di incontrarsi per la prima volta. Fare finta: questa sarà la nuova abitudine degli italiani. Si aprirà una netta distinzione tra quel che si mostra e quel che si fa: una cosa sarà far vedere che si indossa la mascherina, altra cosa preoccuparsi di fermare il contagio. La mascherina al collo è ormai un must, per chi fuma e per chi mangia (non il tempo di inghiottire il boccone, ma per i quaranta minuti necessari a finire con lentezza esasperante un piatto di stuzzichini); molti la tengono fin che stanno zitti ma se la abbassano quando devono parlare, perché gli dà fastidio.

Le mascherine firmate, a prezzi piuttosto alti, si propongono come “la moda dell’estate”, secondo l’auspicio di Zingaretti. Abbiamo fatto finta, finora, che i sacri confini regionali garantissero sicurezza, che fosse più pericoloso andare da Mantova a Guastalla che da Mantova a Varese; faremo finta, da oggi, che la Lombardia abbia gli stessi contagiati della Basilicata, e che “la Costituzione più bella del mondo” ci imponga di trattare le due regioni allo stesso modo, dal punto di vista delle precauzioni sanitarie. Facciamo finta che nei guanti usa e getta forniti dai negozi possano entrare le mani e che i virologi siano d’accordo tra loro. Contrapporre con smagato compiacimento la realtà alla sua rappresentazione appartiene all’istinto teatrale degli italiani; ma la nuova e più intensa spettacolarità dei media accentua la tendenza fino a farla girare in folle. La rissa di Perugia è più clamorosa di una catena di montaggio, quindi la prima ci è stata mostrata decine di volte, mentre nessuno è entrato con una telecamera nascosta in qualche fabbrica, a verificare come spesso gli operai siano costretti a lavorare gomito a gomito, in condizioni ambientali che li spingono periodicamente a togliersi le protezioni.

C’è paura, comprensibilmente, che la fabbrica sarebbe costretta a ri-chiudere e a ricominciare con la cassa integrazione. Ora c’è paura per il turismo straniero e l’Italia deve apparire sana («far finta di essere sani», cantava Gaber); quindi è più semplice prendersela coi ragazzi spensierati che comunicare il numero reale dei positivi, magari dividendoli per età e professione. La morte fa parte della vita e la vecchiaia non dovrebbe essere un tabù, ma sono discorsi deprimenti e allora meglio affidarsi alla retorica pubblicitaria: «Quando il mondo si ferma, tu vai avanti». E sperare nello Stellone d’Italia, che Dio ce la mandi buona. (A proposito di mondo: chi stila quotidianamente il bollettino della John Hopkins University potrebbe spiegare che senso ha scrivere che dall’inizio della pandemia c’è un solo morto in Burundi e quattro nello Zimbabwe? Evidentemente anche lì fanno finta. E già che siamo sui bollettini, perché non confrontare quelli del covid, ogni tanto, con quelli relativi ai morti per suicidio, violenza, carestia, sommosse, razzismo, criminalità, droga o alcol?).

La malafede, l’assuefazione alla recita sono disperanti: eppure fin che ci si dispera, o si ride per non piangere, è un buon segno. L’altro giorno ho visto due automobilisti che si erano incocciati e stavano facendo la constatazione amichevole: coi telefonini erano impegnati a prender giù le rispettive generalità, mascherinati entrambi; in un lampo ho avuto una visione, terribile: che questa vita sacrificata e farsesca, col tempo, possa essere percepita come normale. Che questa sia la post-umanità che aspettavamo, integrata alla tecnologia ma per terrore.