Letture
Il libro
Gli ‘Spettri’ di Monica Maggioni: dal 7 ottobre ai nazisti in Pennsylvania
«Io devo andare di là. Per favore portatemi di là su uno dei voli vuoti. Vado, mi fermo solo le ore che decidete voi, giriamo le immagini e torno. Devo vedere quel cancello. Voglio filmare e raccontare l’ultimo volo da Kabul. Mi dispiace davvero scocciare. Ma devo vedere per capire». Monica Maggioni è una giornalista, un’eccezionale reporter, come si dice in America. Il suo lavoro decennale è noto a tutti. Inviata, direttrice del Tg1, presidente della Rai, fa “In mezz’ora”, ha realizzato un programma difficile ma incredibile, “News room”.
Il suo giornalismo è un’istanza morale, una necessità di testimoniare – «Devo vedere per capire», appunto – quello di una volta, nel quale c’è sempre qualcos’altro da raccontare. Per cui questo libro di Maggioni, “Spettri” (Longanesi), è un racconto potenzialmente senza fine di ciò che ha visto, sentito, respirato. Le notizie, cioè la “farina” del giornalismo, qui sono centinaia. Ma è il lievito morale che fa di quel mestiere una missione. Questo è dunque anche un manuale di giornalismo: non ce ne sono più in giro di Fallaci, Terzani, Mo, Ronchey, Bocca, testimoni di un’altra epoca. A maggior ragione “Spettri” risalta.
La strage del 7 ottobre
Nel segno della grande cronaca, che è ovviamente un elemento decisivo della forza del libro, Maggioni parte da dove non si può partire, cioè dal “giorno dei lupi“, il 7 ottobre. E sono cazzotti nello stomaco. Qualcosa di peggio degli “spettri” perché è realtà. Lei ha potuto visionare un video che definire agghiacciante è niente. Ecco il racconto: «Sono 43 minuti di orrore puro. È il film reale delle prime fasi della strage. Le immagini della corsa a perdifiato dei ragazzi che fuggono dall’area del Supernova, quelli che riescono a salire su un’auto e poi vengono colpiti, andando a schiantarsi contro un’altra auto. Vediamo in faccia, uno ad uno, i ragazzi che vengono massacrati, colpiti più volte alla testa, poi tirati giù dall’auto e buttati in mezzo alla strada. Restano lì. File di manichini disarticolati. Guardare negli occhi chi pochi istanti dopo muore, i due bambini che vedono uccidere il padre, l’ultima ragazza ancora viva e rantolante sul mucchio di ragazze immobili… Sono tutti cadaveri… E poi sparatorie infinite, persone date alle fiamme, corpi smembrati a colpi di vanga. Poi le urla, le risate sguaiate, Allāhu akbar gridato ossessivamente. Una volta al secondo. Sequenze di facce di giovani esaltati che stanno uccidendo all’impazzata. Il ragazzo con la barba e il giubbotto militare parla con le vittime un secondo prima di finirle. Due arrivano in moto e ciabatte, risa oscene e incoscienti. Non si contentano della morte, vogliono vedere il sangue scorrere a fiumi. Lui sembra drogato. E violenta, insulta. Chiama la madre per dire orgoglioso quanti nemici ha ammazzato. La madre lo benedice. Viene dalla morte e non è preoccupato del futuro. Di chi morirà ancora. Di chi non avrà un domani. È cresciuto nell’odio e moltiplica l’odio. Quando si riaccende la luce della stanzetta dell’ambasciata vorrei non essere lì».
Nazisti americani
La citazione è lunga. Ma è doveroso. Questo è un libro che non si può recensire, bisogna leggerlo, ed è per questo che ne citiamo alcuni pezzi. Maggioni è andata ovunque. Nel mondo si muove come a casa sua. È andata a scovare i nazisti non dell’Illinois ma in Pennsylvania: «Quando arriviamo lì, nella radura delle svastiche, seguendo il suo fuoristrada nel bosco, August è in un momento di grazia con la sua organizzazione. È davvero il capo. Sta organizzando il congresso nazionale della Aryan Nations. Recluta adepti dal suo sito web in cui fa bella mostra di sé la frase di Hitler: “Chi vuole vivere deve lottare. Chi si rifiuta di combattere in un mondo di eterno conflitto non merita di vivere”. Mi butta gli occhietti bovini addosso e ribadisce: “Seguiamo Hitler. Lui era un grande leader con una grande visione del mondo. È stato un grande errore combattere contro di lui».
Nazisti europei
Nazisti americani, nazisti europei: l’orrore di Utøya, Norvegia, la strage del boia Anders Behring Breivik, «il norvegese che odiava il governo del suo paese al punto da far saltare mezzo palazzo del governo e ammazzare otto persone. L’assassino dei giovani laburisti, che sull’isola di Utøya ha sterminato sessantanove ragazzi, e rubato per sempre la serenità di molti altri. Sì che non riuscirò ad avere risposte, non le avrei neppure se qualcuno mi aprisse la porta della sua cella. Lo so di certo. Ma andare lì, vedere i suoi luoghi, parlare con le persone, i sopravvissuti, forse mi farà capire qualcosa di più. È il mio limite, il tormento che mi corrode e mi fa cercare le storie da sempre: devo vedere, andare». Ci sono molti altri racconti. Gli “spettri” del mondo spuntano ai quattro angoli del mondo. Monica li cerca ovunque, per raccontarli. Soffrendo dentro. È il Giornalismo.
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