Global tax, troppo presto per cantare vittoria

Prima di parlare di riforma storica a proposito dell’accordo, nel G.20 di Venezia, sulla global minimum tax del 15 per cento, bisogna riservarsi di valutare la fase attuativa, in particolare attendere l’ottobre prossimo quando i 131 Paesi che, per ora, aderiscono all’intesa saranno chiamati a sottoscrivere l’accordo, che predisporrà l’Ocse, per l’adozione di tale tassa.

Al momento, si può dire che si tratta di un principio di straordinaria importanza, sapendo bene, però, che l’innovazione è necessaria per l’esistenza di paradisi fiscali e di forme di concorrenza tributaria e anche legale al ribasso che finora non è stato possibile rimuovere diversamente. Particolarmente grave è, in particolare, la concorrenza fiscale adottata da Paesi dell’Unione, mentre, da un altro versante, ci si propone di arrivare all’integrazione fiscale e già adesso si sostiene l’esigenza di un raccordo tra politica monetaria e politica fiscale in senso lato.

In Europa, restano alcune opposizioni palesi o no, più decise e meno decise in particolare da parte dell’Ungheria, dell’Estonia, della Polonia, dell’Irlanda. Alcuni di questi Paesi stanno imboccando la strada di una specifica, mirata competizione fiscale che sottrae localizzazioni di imprese in Italia per trasferirle presso di essi, come sta accadendo anche in un caso all’ordine del giorno. La tassa globale, che si applicherà ai profitti che superino il 10 per cento dei ricavi, colpirà, in effetti, un centinaio di multinazionali che spostano il fatturato e gli utili nei Paesi dove si pagano le imposte più basse. Sarà, tuttavia, fondamentale valutare come concretamente si distribuirà la tassazione tra sede legale dell’impresa e i diversi Stati di operatività. La revisione dovrebbe comportare l’abrogazione delle imposte già vigenti nei singoli Paesi che rispondano alla medesima “ratio”, come la “web tax” che noi ben conosciamo: almeno questa sarebbe la richiesta degli Usa, tanto che qualcuno, esagerando, ha sostenuto che la vera finalità dell’amministrazione americana – fondamentale nel proporre la “global tax” – sarebbe proprio quella di arrivare a tali abrogazioni.

Nel G20, sia pure in termini generali e ancora lontani da scelte concrete, si è affrontato anche il tema dei “beni pubblici globali” e della lotta alla povertà nonché della possibile revisione dell’architettura istituzionale e delle funzioni dei principali organismi finanziari globali, il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale. Va ricordato che dei “beni pubblici globali” si parla dal Giubileo del Duemila; il tema fu ripreso nel G.20 londinese del 2009, quando si affrontò l’argomento delle nuove regole globali delle attività economiche e qualcuno ipotizzò l’esigenza di un nuovo “ius gentium”. Poi, però, quasi tutto restò come prima. Di tanto in tanto ritorna l’aspirazione a un nuovo ordine monetario internazionale e a una nuova Bretton Woods, ma l’argomento viene accantonato rapidamente. Nel quadro dell’azione, ormai ineludibile, contro i mutamenti climatici, gli Usa hanno proposto, pure a Venezia, una “carbon tax” sulle emissioni inquinanti di diossido di carbonio, ma subito ci si è divisi tra coloro che vorrebbero l’applicazione della tassa in ogni Paese e quelli che la vorrebbero “alla frontiera” in relazione all’import-export.

Certo sarebbe importante mettere insieme un pacchetto per la tassazione dei colossi dell’economia, la disciplina dei beni pubblici globali e il contrasto della povertà con l’azione anti-inquinamento e anti-mutamenti climatici in generale. Ma non bisogna concepire speranze oltre ciò che sia coerente con un necessario realismo. Quando si tocca il fisco, si tocca un aspetto fondamentale non solo dell’economia, ma anche della democrazia: no taxation without representation. Ciò non significa che bisogna demordere; vale, invece, per avere presente che il percorso non è facile e che bisogna fare leva sull’estensione delle convergenze tra Paesi, cominciando con il sanare situazioni più vicine a noi, come nel caso di alcuni Stati dell’Unione di cui si è detto, benché si tratti di un’opera complessa che si avvicina al “ vaste programme”. Anche in questo caso, comunque, anzi a maggiore ragione in questo caso, non esistono demiurghi o taumaturghi.