Google crede ancora nell’Europa. Nonostante tutto. E si candida come partner chiave per la sua transizione digitale. In un report passato più o meno sotto silenzio, intitolato “Google’s Eu Ai Opportunity Agenda”, il colosso di Mountain View riconosce al nostro Continente le potenzialità per colmare i gap di produttività industriale che ci distanziano da Stati Uniti e Cina. Sottolinea le buone intenzioni espresse nel Piano Draghi. E soprattutto riconosce al nostro mercato del lavoro le possibilità di effettuare un aggiornamento professionale e di competenze tale da mettersi al passo con società concorrenti, molto più giovani e quindi dinamiche.

È un documento ricco di prescrizioni e suggerimenti, che parte da un’analisi disincantata del contesto. “Dal 1980 a oggi – si legge – il PIL europeo ha perso il 17% del suo posizionamento sul mercato globale. Nel 2022, la produttività degli Stati Uniti ha superato quella della Ue del 20%”. Questi numeri e altri indurrebbero un qualsiasi Cfo dalle spicce maniere a dire “Andiamocene!” Eppure Google mette da un lato il (triste) quadro economico e la butta sul versante sociale. “Il 74% dei lavoratori nei paesi europei è consapevole degli effetti positivi che l’IA potrebbe avere sulla propria produttività. Il 43% si aspetta che l’IA abbia un impatto positivo sul proprio lavoro”. Da qui, con ottimismo, stima che l’Intelligenza Artificiale potrebbe far crescere dell’8% il PIL europeo in 10 anni. In numeri assoluti sono 1,2-1,4 trilioni di euro.

E poi si passa al cosa fare. Secondo il colosso tecnologico, servono quattro ordini di operazioni: investire in infrastrutture digitali (datacenter e supercomputer); elaborare una strategia per il mercato del lavoro sulla base di una riqualificazione professionale inclusiva, che tenga dentro le new entry ma anche chi ha più anni ed esperienza; adottare a tutti gli effetti l’IA, per migliorare la produttività delle Pmi; mantenere un equilibrio tra innovazione e regolamentazione, “promuovendo un approccio basato sui rischi dell’IA, senza soffocare lo sviluppo tecnologico”. Quest’ultimo passaggio è un po’ sporco di rancore per i precedenti che ci sono stati – neanche tanto tempo fa – tra la stessa Google e la commissaria uscente alla Concorrenza, Margrethe Vestager. Mountain View infatti non dimentica. Né le multe né i troppi regolamenti che hanno condizionato i suoi operatori quanti clienti e utenti sul mercato europeo. Deregulation significa non soltanto meno provvedimenti, ma anche più semplici.

C’è poi la parte di “how to do”. Alla stregua di Draghi, non c’è soggetto sul mercato – salvo qualche burocrate di Bruxelles o un ultimo giapponese del no debito senza se e senza ma – che non riconosca la necessità di creare risorse finanziarie extra budget. L’Europa non può pensare di poter recuperare le lunghezze di cui sopra con le sole forze che ha in cassa. “Si suggerisce – dice Google – di incentivare gli investimenti del settore privato e di migliorare il coordinamento tra gli Stati membri”. Sulla base dei programmi Horizon Europe e Digital Europe, Bruxelles deve pensare più in grande. Google esce così dal pacchetto di mischia delle Big Five e apre al dialogo.

Negli anni, Amazon, Apple, Meta, Microsoft e appunto Google sono state tutte colpite da ammende salate per la loro scarsa disponibilità a stare alle regole del libero mercato. Posizione dominante, gestione poco trasparente dei dati, superficialità nelle policy sulla privacy sono state queste le accuse. Ciononostante, Google decide di cambiare strategia. Anticipa la conferma di Teresa Ribera Rodríguez (sarà lei a succedere a Vestager) e si presenta a Bruxelles con i suoi suggerimenti. Sebbene il report sia in linea con quanto detto da Draghi – che comunque non ha alcun potere decisionale, ahinoi – e indichi una strada banalmente ragionevole, non è dato sapere come verrà accolto. Ribera Rodríguez si è detta favorevole alle concentrazioni tra imprese, soprattutto nel mondo Tlc. Ma questo significa promuovere il Made in Ue, non lasciare che il nostro IA resti una prateria a libero sfogo di Google & Co. Certo, l’Europa non ha una sua neutralità digitale. Ed è irrealistico sognare che una qualche nostra startup, o aggregazioni di tali, possa un giorno fare le scarpe ai padri dell’Intelligenza Artificiale.

C’è infine il punto sull’impatto ambientale. Ursula Von der Leyen ha dato a Ribera Rodríguez entrambi i dossier: transizione ecologica e digitale. È corretto. Ma cosa succederà quando la commissaria entrante si renderà conto che un data center è più energivoro di 8mila auto diesel?