Meriti e oblio: tanti applausi ma pochi aiuti
Gorbaciov, ritratto di un leader dimenticato: osannato dall’Occidente e odiato dai russi, il tempo con lui non è stato galantuomo

Sorte ingrata quella di Michail Gorbacev, ex uomo più potente del mondo a pari merito con il presidente degli Usa, ex segretario generale del Pcus, dunque padrone della sterminata Unione sovietica, premio Nobel per la pace mai tanto meritato. L’Occidente, che lo aveva molto applaudito e poco aiutato all’epoca del suo tentativo di riformare un sistema che probabilmente riformabile non era, lo aveva dimenticato. Un conferenziere ben pagato, il presidente di una Fondazione racchiusa in spazi sempre più angusti a Mosca, da onorare, certo, ma senza bisogno di ascoltarlo: come quando nel 1999, con gli aerei Nato che bombardavano Belgrado, ammoniva inutilmente la Nato a non scippare le prerogative dell’Onu in virtù solo della forza militare. Appena dieci anni prima aveva messo fine alla guerra fredda ma era già un sopravvissuto, estraneo al nuovo mondo.
In Russia gli entusiasmi iniziali avevano ceduto il passo a un discredito universalmente diffuso già nel corso del suo breve regno: poco più di sei anni, dall’11 marzo 1985, quando grazie a un accordo con i geronti della vecchia guardia breneviana diventò segretario generale del partito, all’8 dicembre 1991, quando si dimise da presidente dell’Urss, carica che aveva sommato a quella di segretario nel 1988 togliendola al dinosauro Andrej Gromyko. Nel bellissimo e monumentale Tempo di seconda mano, della giornalista premio Nobel per la letteratura Svetlana Aleksievic, testo definitivo per capire la fine dell’Urss, il solo tratto comune nelle decine di testimonianze è il disprezzo per l’uomo che in Occidente chiamavamo amichevolmente Gorby e applaudivamo senza capire quanto poco fosse invece amato nel suo Paese. Nel ricordo dei decenni successivi le quotazioni dell’ultimo leader dell’Urss sono scese ulteriormente, nessuna riabilitazione per lui in Patria: per i russi è ancora l’uomo che ha smantellato la potente e orgogliosa Unione sovietica.
Per i popoli che si affrancarono e si resero indipendenti allora, invece, Gorbaciov è l’Urss, il giogo sovietico, il presidente che, dopo aver permesso e quasi incentivato la nascita dei nazionalismi, tentò di sedarli e reprimerli ordinando nel gennaio 1991 all’Armata Rossa di occupare il Parlamento della Lituania a Vilnius e di sparare sulla folla. Un disastro politico che Gorbacev rese anche peggiore negando contro ogni evidenza di essere stato al corrente dell’operazione militare contro la Lituania. Il tempo per ora non è stato galantuomo con Gorby. Ha cancellato il ricordo degli accordi che portarono nel 1987 alla firma del Trattato sovietico-americano Inf sullo smantellamento dei missili nucleari a medio raggio in Europa. Fu l’inizio della fine della guerra fredda, tanto che proprio il segretario del Partito comunista sovietico arrivò a pronunciare parole allora inimmaginabili come quelle sulla Nato non più considerata un nemico.
Il tempo ha fatto dimenticare la vitalità, l’energia, le speranze della breve primavera russa, della quale tuttavia proprio il libro di Svetlana Aleksievic è testimonianza e monumento perché tutti, pur biasimando il leader, ricordano con struggente rimpianto quelle ore di interminabili discussioni, ogni sera fino a notte tarda e sempre nelle cucine, dove i russi ritenevano di potersi esprimere con minor rischio di essere ascoltati e registrati. E ancora i decenni hanno annebbiato nei Paesi dell’ex Urss la percezione di quanto la loro indipendenza debba alla rivoluzione di Gorbacev, alla perestrojka e alla glasnost, che certo non miravano alla dissoluzione dell’Urss ma che posero lo stesso le basi necessarie e imprescindibili per quella indipendenza.
Forse è vero che Michail Gorbacev non riuscì ad andare oltre la metà del guado. È probabile che colga nel segno Georgj Shaknazarov, suo strettissimo collaboratore, quando dice che in lui “coabitavano due persone: un riformatore radicale e un funzionario di partito”. Ma è anche vero che quasi sempre il riformatore ebbe la meglio sul funzionario e che difficilmente avrebbero potuto evitare qualche ambiguità. In fondo era arrivato al potere attraverso un tipico percorso tutto interno alla nomenklatura, ai suoi riti e alle sue logiche. Lo aveva indicato come suo delfino Andropov, ex capo del Kgb succeduto a sorpresa a Breznev come segretario del partito nel 1982, come Gorbaciov proveniente dalla provincia di Stavropol. Andropov era allo stesso tempo un duro della vecchia guardia e un riformatore che, per imporre le riforme, era pronto a ricorrere ai metodi spicci ereditati dall’età di Stalin. Durò pochissimo. Alla sua morte, nell’84, gli succedette, invece del delfino Gorbaciov, il conservatore assoluto Cernenko che a sua volta sopravvisse al conferimento dell’alta carica appena un anno. Per spuntarla, dopo il terzo decesso di geronte in meno di tre anni, Gorbaciov dovette stringere un’alleanza con il più inossidabile tra i campioni della nomenklatura, Andrey Gromiko, ministro degli Esteri da 28 anni.
Eppure fu subito chiaro che con il nuovo segretario le cose erano cambiate. Gorbaciov era giovane, molto energico, in ottima salute, e già questo nell’Unione sovietica degli anni 80, dove i dirigenti erano tutti più di là che di qua, faceva scalpore, tanto che praticamente tutti i leader occidentali che lo incontrarono ai funerali di Cernenko non mancarono di notare e segnalare. Arrivava in ufficio alle 9, lavorava a testa bassa 12 ore al giorno di solito senza neppure fermarsi per la pausa pranzo. Aveva una moglie, Raissa, con la quale era felicemente sposato da 22 anni e certo non era il primo. Ma dai tempi di Lenin era la prima volta che una first lady compariva in pubblico, non restava nell’ombra ed era anche bella ed elegante. Ed era anche, incredibile ma vero, la principale consigliera del marito. Cose da Casa Bianca o peggio!
Poi Gorbaciov, per gli standard sovietici dell’epoca, era un cosmopolita. Aveva passato la cortina di ferro più spesso di qualunque altro dirigente sovietico a eccezione di Gromyko. Era stato in Germania, Belgio, Canada. Una volta si era anche eclissato per girare la Francia in macchina con Raissa, roba che nell’Urss neppure Easy Rider. Era stato in Italia ed era davvero interessato alla svolta del Pci. Gorbaciov era nuovo e in quanto tale suscitò nel suo Paese attese e speranze che né la situazione né probabilmente l’acume politico dell’uomo permettevano di realizzare davvero. Come politico Gorbaciov di errori ne commise parecchi: esordì con una campagna proibizionista dura contro il consumo di vodka, già avviata con metodi Kgb da Andropov, che mise al tappeto un’economia già agonizzante e gli inimicò subito la popolazione. Provò a forzare sulla produzione con metodi quasi bellici e fallì miseramente l’obiettivo.
Quando scelse di aprire a spiragli di iniziativa privata lo fece riproponendo la Nep degli anni 20, come se nel frattempo non fossero passati sei decenni e passa e fu un altro scacco. Forse la sconfitta della sua scommessa era già scritta quando scelse di giocarla, ma di certo merita che sulla sua lapide campeggi la scritta che, intervistato dal regista Werner Herzog, disse che gli sarebbe piaciuta più di ogni altra: “We Tried”. Ci abbiamo provato.
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