Giorgio Gori, nato con Mediaset e diventato produttore con la sua Magnolia, è diventato uno dei punti di riferimento dei riformisti nel Pd, per il quale è stato sindaco di Bergamo per due mandati. Adesso è stato eletto in Europa con 210.000 preferenze.

Come vede il suo nuovo impegno in Europa?
«A Bruxelles lavorerò, con i colleghi della delegazione Pd e con quelli del Gruppo S&D, all’obiettivo principale di questa legislatura: favorire un avanzamento del processo di integrazione europea, o quanto meno evitare che la maggiore presenza della destra nella composizione del Consiglio e della Commissione possa farci fare dei passi indietro. Già oggi la debolezza dell’Europa è dovuta alla sua frammentazione, fondata sul potere degli Stati nazionali. Serve quindi maggiore condivisione, a partire da una più corposa dimensione del bilancio dell’Unione e da investimenti finanziati da debito comune per sostenere la transizione verde e la competitività dell’industria continentale».

Da Bergamo a Bruxelles, dal local al global. L’Europa dei municipi riuscirà a recuperare quella prossimità, quel rapporto diretto cittadini-eletti?
«A differenze delle elezioni politiche, il voto europeo è caratterizzato dall’espressione delle preferenze. Contiene quindi un mandato più esplicito – io ho ben chiare le priorità delle comunità e le imprese del nord-ovest in cui sono stato eletto – e un legame che ci si aspetta venga coltivato nel corso del mandato. Sta quindi a noi eletti, ritengo, far sentire Bruxelles più vicina ai territori».

Anche perché la politica sembra sempre più distante dal vissuto quotidiano di tanti. Come si recupera quel rapporto, come si torna a dare dignità agli eletti, dopo tanti anni di populismo?
«La prima condizione è che la politica abbia rispetto di sé stessa. Se al contrario dà l’idea di vergognarsi della propria funzione – come è spesso accaduto negli ultimi anni, per compiacere i populismi del momento – è fatale che i cittadini non ne riconoscano la dignità. Se siamo i primi a qualificare un incarico politico come una “poltrona”, come possiamo pretendere che i cittadini colgano il valore del nostro lavoro? Negli anni da sindaco non mi sono mai sentito lontano dalla vita dei miei concittadini. Lavorerò perché sia così anche nel mio nuovo ruolo».

Il campo di azione della politica si è ristretto, ma forse proprio per questo dovrebbe essere più efficace. Lei viene da una storia personale di successo. Il merito conta anche nella politica?
«Nella maggior parte dei casi sì. Nessun leader è tale senza merito, o quantomeno senza disporre di qualità o caratteristiche che una parte degli elettori è portata ad apprezzare. Queste qualità possono essere anche molto lontane da quelle che determinano il successo in altri campi – la serietà, la preparazione – ma ciò non toglie che abbiano a loro volta un “mercato”, seppure piuttosto volubile. Personalmente tendo ad applicare le stesse leve che mi hanno aiutato ad emergere in precedenti esperienze».

Il centrosinistra unito può vincere? Avrebbe i numeri, sulla carta. Ma poi c’è la realtà, l’arte del governo – per dirla con Machiavelli.
«Certo che può vincere. L’azione dell’attuale governo è largamente insufficiente, oltre che segnata da costanti divisioni tra i partiti che la compongono. E’ facile che gli elettori possano cercare un’alternativa presso chi oggi è all’opposizione. Il tema è la capacità delle attuali forze di opposizione di comporre una credibile, compatta, efficace proposta di governo. Su questo siamo solo agli inizi del cammino, e non è scontato che ci si riesca».

Un programma unitario è possibile?
«È necessario. Se anche possibile, lo vedremo. Tra forze che hanno molti punti in comune, ma anche identità diverse, il lavoro di composizione deve partire da un riconoscimento reciproco, che comporta il venire meno di veti e pregiudizi. Bisogna avere l’intelligenza di non guardare al passato, rispetto al quale nessuno è esente da errori, ma di guardare avanti. Un programma comune è la condizione per essere credibili, e ovviamente non può essere solo fatto di “no” a questo o a quel disegno della parte avversa. Un programma dev’essere “per”. E non può contenere omissioni. Sulla politica estera, cosa pensa la coalizione di centrosinistra? Siamo tutti d’accordo che il sostegno all’Ucraina, anche militare, non può venire meno? Come pensiamo di affrontare il nodo del debito pubblico, per poterci permettere più investimenti per la sanità e per la scuola? Cosa pensiamo di fare per le imprese e per la crescita? Bisogna discutere, con pazienza, come sono abituati a fare i tedeschi quando si trovano a dover mettere insieme forze politiche che fino al giorno prima si sono combattute nella campagna elettorale».

Il campo largo (o come lo vuole chiamare) richiede tempo. Secondo lei il governo di Giorgia Meloni terrà a lungo, finirà il mandato? Vede trappole referendarie?
«Ci sono tante variabili. Il nervosismo delle forze di governo potrebbe far pensare ad una fine anticipata della legislatura, ma sappiamo che il potere è un collante piuttosto efficace. Credo che Meloni annuserà l’aria, anche rispetto alla “sua” riforma, ovvero all’introduzione del premierato. Se nell’opinione pubblica dovesse cogliere un orientamento prevalentemente avverso, potrebbe decidere di andare al voto prima che al referendum. Così come darei per scontata una crisi anticipata in caso di sconfitta della maggioranza nel referendum sull’autonomia (sempre che la Corte Costituzionale dia l’ok sul quesito)».

L’allargamento del campo ai centristi non sarà privo di scossoni. Non tutti sono d’accordo. Lei quali passaggi vede?
«Vedo alcuni mal di pancia, e mi dispiace, perché considero importante il contributo che le formazioni liberaldemocratiche possono apportare al progetto di coalizione. Spero siano superabili. Nel passato ci sono stati contrasti e incomprensioni. In diversi passaggi hanno prevalso i personalismi. Oggi tutti hanno la responsabilità di pensare al Paese e, come ho detto, di guardare avanti, riconoscendo la dignità di ogni potenziale compagno di viaggio. Non è che il primo passo, perché senza un programma comune – un programma di governo, non di opposizione – non andremo lontano. Ma chi si fermerà ai veti avrà la responsabilità d’aver fatto fallire nella culla il progetto dell’alternativa. Chi si impunterà a difesa del suo piccolo orto, avrà fatto un enorme favore a Meloni e Salvini».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.