La breve permanenza a palazzo Chigi
Governo D’Alema, aneddoti e ansie nella stanza dei bottoni: il matto Cacciari e il premier antipatico con lo staff al mattino
Le fatiche di un giovane governo nato (forse) per sbaglio Ottobre 1998, il neoletto presidente del Consiglio è alle prese con la formazione della sua squadra E inizia una riflessione sulla gestione e sul ruolo dello staff , punto di forza del suo leader
Un vecchio diario impolverato, già edito in ebook, in cui raccolsi per un po’ di mesi esperienze, aneddoti e ansie di una breve permanenza nella stanza dei bottoni. È roba di 25 anni fa, ma non pensiate che oggi le cose siano così diverse…
Venerdì 16 ottobre 1998. D’Alema sta per mollare l’incarico di fronte alla difficoltà di mettere insieme Cossutta e Cossiga, questo il quadro di prima mattina. Dopo un incontro con Caltagirone (null’altro che convenevoli, lui vorrebbe sapere che succede e io non so più di tanto), torno a Botteghe Oscure e trovo una situazione che si va rapidamente evolvendo. Alle 13 Cossiga dichiara esplicitamente che vuole stare in maggioranza. Da quel momento la strada è in discesa. Alle 18.30 D’Alema va da Scalfaro (gustosi i preparativi, con il prefetto Immelli che arriva a Botteghe Oscure e si fa vedere da tutti i giornalisti, malgrado le mille precauzioni, e D’Alema che raggiunge il Quirinale su una Punto anonima), la sera ci ritroviamo a casa sua, io, Latorre e Cuperlo per fare il governo. Sono le 4.30 di sabato, comincio a pensare che l’avventura stia partendo. Il mio lavoro, dopo la pausa di un semestre all’Unità, torna ad essere quello di sempre. È una condanna, un destino, o è quello che in realtà voglio fare?
D’Alema, la lista dei ministri e le pressioni per i sottosegretari
Domenica 18 trascorsa a Botteghe Oscure per fare telefonate ai prossimi ministri. Ci saltano Bonino e Cacciari. La prima in un paio di chiamate si guadagna la stima di D’Alema dicendo che vuole restare a fare il lavoro che fa, e rispettare fino in fondo il mandato ricevuto. Il secondo lo adoro ma è un matto. Prima a D’Alema, poi a me, poi a Bassolino insiste a dire che vuole fare l’interlocutore del governo, ma restando nel Nord Est per organizzare non si capisce bene che cosa. Gli intrecci si fanno più complessi lunedì, quando D’Alema riceve l’incarico. Martedì pomeriggio io, D’Alema e Ornella siamo a casa Siola per evitare la fila dei questuanti, ci restiamo fino a sera tardi completando la lista dei ministri che D’Alema porterà al Quirinale mercoledì mattina. D’Alema commette un errore capitale convocando Mussi, Salvi, Bassanini, Veltroni e Minniti il pomeriggio di mercoledì, per la lista dei sottosegretari. Mi chiama la sera, io e Cuperlo restiamo a vedere il discorso, mentre quelli nella stanza affianco compilano l’elenco dei nomi. Il giovedì mattina alle 8 sono a casa di D’Alema, fronteggio l’ultima offensiva di Violante su Burlando come sottosegretario alla presidenza e, insieme a D’Alema, rinviando di un’ora il Consiglio dei ministri, cancelliamo qualche nome osceno proposto da Salvi (la omissis tra questi). Poi siamo al lavoro. Da giovedì 22 ottobre sono a Palazzo Chigi, nell’ufficio più grande. Me lo sono preso fottendolo a Minniti, anche se è eccessivo e scomodo (lui, mio amico fraterno ma calabrese, ce l’avrà con me per molto tempo…).
Dovevo evitare che intorno a D’Alema circolasse troppa gente, la prima condizione per gestire il potere è la prossimità fisica, così insegnano i manuali. Sabato e domenica sono a Klagenfurt con il presidente ed una corte di miracoli di diplomatici e cortigiani: gente chiaramente inutile, temo dannosa. Al ritorno, in aereo, facciamo il piano per la prima settimana. D’Alema sembra ben intenzionato: ha fatto bella figura al vertice, ora vuole darsi da fare. Naturalmente dovrà radicalmente cambiare il suo modo di lavorare. Ne sarà capace? Vanno bene i primi giorni, anzi benissimo. Mettiamo su la struttura in tempi rapidi, con una certa efficienza, nel Palazzo dicono che funzioniamo. È importante diffondere questa impressione. Con D’Alema discutiamo spesso del metodo. Lui è pressato da tanti ed è tentato di rispondere alla vecchia maniera. Noi, io e Rossi in particolare, ma anche Nicola, cerchiamo di farlo resistere su una linea di innovazione. Bisogna far fronte agli assalti di Bassolino, che vuole le deleghe per il Mezzogiorno. Cominciano i problemi: Pinto è eletto al posto di uno dell’Udr nella commissione Giustizia del Senato. Di queste cose è il caso che si occupi Minniti. D’Alema, ci diciamo, deve svolgere la seguente mission: sulla base di un nuovo, moderno stile e metodo di governo, deve ricreare un rapporto forte con il paese e dare un posto dignitoso all’Italia in Europa. Bah…
Comincia la routine, ed io entro in una fase blandamente creativa. Organizzo cose, tengo sotto pressione D’Alema e gli altri, insomma si lavora. Faccio pace con la Melandri, e organizzo un vasto programma di iniziative che la comprendono. La prima uscita pubblica del presidente è tra i pensionati del centro anziani della Garbatella, mercoledì 4 novembre. Riprendiamo l’inglese, lo facciamo al piano di sopra, dove mangiamo non più la mela ma un pasto Messegué oriented. La crostata di martedì 3 è ottima, con visciole e mandorle. Martedì 3 D’Alema si incontra con le forze sociali, e l’avvio è ottimo. Ma la notizia viene sommersa dal voto sulla commissione per Tangentopoli, poi ci sono i sindaci che stanno creando il loro movimento, c’è la discussione sulla legge elettorale… insomma il fatto per noi importante non viene valorizzato. È un difetto della nostra comunicazione – in parte anche voluto perché D’Alema vuole partire basso – ma la cosa mette anche in rilievo altro. D’Alema è per tutti il leader politico, non solo il capo del governo. Quindi gli viene addebitato ogni fatto politico: il dialogo con il Polo è questione sua, i sindaci polemizzano con lui. Come si evita tutto ciò? Sarà banale e ingenuo, ma penso che il problema sia contrastare il teatrino politico con la concreta attività di governo.
Questo c’è da fare. E, anche, darsi una “teoria” all’altezza: insomma che stiamo a fare qui dentro, qual è il nostro obiettivo. Non so se è il caso di farlo all’assemblea congressuale, venerdì prossimo, forse lì no, ma bisognerà farlo alla prima occasione, con uno scritto, un saggio, un articolo, che ne parli. Altrimenti saremo sempre quelli arrivati a Chigi con una congiura di palazzo. D’Alema scoppiettante, la mattina di giovedì. I giornali sono ottimi, gli incontri con le forze sociali vanno benissimo. Lui dice: “Dato che rappresentiamo una sparuta minoranza di italiani, facciamo in fretta le cose che ci sono da fare, e poi …”. Lui mantiene la sua visione negativa sugli italiani e su questo paese. È sbagliata. Cominciata bene, la giornata va male. Cuillo ha armato un casino su stanze, telefoni e quantaltro, che ha però me come obiettivo. Grande fibrillazione tra le segretarie, clima brutto e pesante. La sera con Nicola finalmente facciamo un ragionamento serio sullo staff. È partita alla grande la campagna contro di noi (contro di me?!), ne abbiamo la conferma il giorno dopo sull’Espresso.
L’importanza dello staff che rafforza il leader
Che fare? Due cose. Convincere D’Alema che lo staff è cosa che rafforza il leader, non lo indebolisce. La seconda è formalizzarne l’esistenza per rendere meglio sul piano operativo. Naturalmente non è un caso che già dopo quindici giorni vi sia questo casino. Significa che funzioniamo, che siamo bravi. Non è neppure in discussione il fatto, sacrosanto, che noi si debba subire, fare da schermo, prenderci un po’ di merda ogni tanto. Il punto è che il nostro ruolo possiamo svolgerlo meglio se abbiamo le spalle coperte e siamo rassicurati. Del concetto di staff D’Alema raccoglie solo gli aspetti negativi: il fastidioso carattere di “corte”, l’esposizione pubblica, l’invidia e il senso di emarginazione degli altri. Potrebbe imparare quali sono gli aspetti positivi del lavoro di staff, definiti da un’ampia letteratura: lo sgravio di lavoro, la crescita di produttività, la circolazione delle idee, la nascita di un senso di appartenenza e di comunità. Così facendo, lo staff diventa innanzitutto meno esposto alle critiche perché legittimato, diventa espansivo perché meno preoccupato e ansioso.
La giornata tipo dello staff e il premier antipatico
Come si affronta dunque il problema, che non è solo nostro ma anche di Minniti? Facendo proprio un diverso metodo di lavoro. Lo staff va riunito (di norma ogni mattina) per definire, attraverso discussioni brevi, produttive, non sterilmente conflittuali, le cose da farsi: esame dei giornali, agenda della giornata, riunioni e posizioni da tenere. Intanto il leader ascolta, decide, poi affida i compiti, e la giornata comincia bene. Così si dovrebbe procedere. Non si può perché la mattina D’Alema è catatonico e antipatico? E allora si scelga un’altra ora del giorno… però in Italia, come in tutto il mondo normale, si comincia a lavorare di mattina e si finisce la sera. Non siamo ancora in condizione di regolare la vita del paese sui ritmi biologici del suo capo.
(1. continua)
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