Giorgia Meloni ha il vento in poppa. Il successo in Abruzzo ha cancellato lo choc Sardegna, la crescita di Forza Italia rafforza il patto con il centro moderato di Tajani e mette governo e maggioranza al riparo da strappi estremisti e a proprio agio nel vento europeo, atlantista, centrista. Salvini è vissuto come un terzo incomodo ma solo fastidioso e non più pericoloso: la premier quasi non si cura più delle sue quotidiane fughe in avanti e dei suoi tatticismi. Sa già come vanno a finire, come la storia del terzo mandato. O come l’autonomia regionale: per i prossimi due anni non ci saranno i soldi (tra i 20 e i 30 miliardi) per adeguare i Livelli essenziali delle prestazioni (Lep) e quindi la riforma sarà al momento solo su carta. Non operativa. Per Salvini una bandierina issata a metà.

La premier ha ritrovato il sorriso e ormai parla senza timore di “traguardi di legislatura” come sulla riforma fiscale e sulle privatizzazioni. Dalla sua ci sono anche i dati economici: nel 2023 l’Italia è cresciuta dello 0,9, più di tutti gli altri paesi europei; il tasso di disoccupazione è allo 7, 7 (meno 0,4 per cento rispetto al 2022) e prosegue la crescita, come nei due anni precedenti, degli occupati (+481 mila, +2,1% in un anno). Lo spread è ai minimi dal 2021 e gli indici di Borsa regalano sorrisi. Certo, il quadro internazionale è complicato, difficile, sempre in bilico, ma il governo è affidabile, stabile e saldamente posizionato dalla parte giusta: Nato e patto atlantico, con buona pace dei pacifisti rossobruni che si agitano anche nella sua maggioranza.

Il vento in poppa, si diceva, anche perché una grossa mano gliela danno certamente le opposizioni che, nonostante gli inviti del professor Romano Prodi, non riescono neppure a fare colazione insieme al bar. Vedere la Basilica per capire e poi “morire”. Così la premier ha buon agio nel far vedere che lei si occupa d’altro, di dare affidabilità e sostanza al Paese, cioè di governarlo. Il ministro Fitto ha appena informato il Parlamento che sul Pnrr va tutto bene, anzi benissimo anche se la Corte dei Conti dice che stiamo spendendo poco e l’Ufficio parlamentare di bilancio chiede maggiore trasparenza e precisione nelle decisioni. Ieri la premier ha presieduto la prima cabina di regia di quel Piano Mattei per l’Africa che a fine gennaio ha ospitato a palazzo Madama 46 leader africani e i vertici europei. Gli obiettivi primari sono tre: far crescere l’economia africana, fermare le migrazioni nel senso il traffico di esseri umani, togliere acqua a chi ben prima di noi e dell’Europa, cioè Cina e Russia, hanno messo mani e piedi nel continente africano e sulle sue ricchezze. Materie prime che fanno gola anche all’Italia. E all’Europa.

Vista così è la cronaca di un successo dorato e anche duraturo. Ma non è tutto oro quel che luccica. E basta allungare un po’ lo sguardo e diventa chiaro che i conti non tornano. E che ben presto, entro la fine di aprile al massimo, in piena campagna elettorale per le Europee, Meloni dovrà inventarsi qualcosa di potente e anche clamoroso per continuare a dire che va tutto bene. Ne sanno qualcosa al Ministero delle Finanze dove i tecnici e il ministro Giorgetti sono al lavoro da settimane per impostare e scrivere il Def, ovvero il principale strumento di programmazione economica del governo che riporta gli obiettivi, le stime sull’andamento delle finanze pubbliche e dell’economia nazionale e le riforme che l’esecutivo intende attuare. La consegna a Bruxelles è prevista tra il 10 e il 30 aprile. Considerando che c’è Pasqua di mezzo, in pratica ci siamo.

Ci saranno in quel documento i numeri dell’economia italiana, le stime di crescita, debito, rapporto deficit/pil per il 2025. Ora il punto è che nel 2025 il governo dovrà finanziare alcune spese “fisse”. Significa trovare 16 miliardi solo per non fare aumentare le tasse: il taglio del cuneo per gli stipendi fino a 35 mila euro, il taglio dell’Irpef, il canone Rai, tutti tagli non strutturali e che quindi vanno rifinanziati. Serviranno almeno 5-6 miliardi per le cosiddette “politiche invariate” (a cominciare dalle missioni all’estero) e altri 12 miliardi per ridurre il deficit in base alle regole del nuovo patto di stabilità, quello approvato a fine dicembre, regalo di Natale, e che Giorgetti avrebbe preferito rispedire indietro. Fatta la somma, parliamo di 32 miliardi per non fare nulla, cioè per lasciare le cose come stanno.

Ora, Meloni ha sempre detto che nel 2025 finanzierà queste misure grazie alla maggior crescita. Ma Bankitalia dice che nel 2024 la crescita del Pil sarà esattamente la metà di quella attualmente prevista: lo 0,6% contro l’1,2%. Da dove salteranno fuori questi 32 miliardi? La risposta è a suo modo semplice: o aumentano le tasse e quindi le entrate o taglia la spesa. Entrambe non sono belle notizie. Esiste anche una terza via: le privatizzazioni. Nei documenti programmatici si parla di venti miliardi entro la fine della legislatura (2027). Obiettivo ambizioso di non facile realizzazione. Anche il Pnrr, vanto e orgoglio di palazzo Chigi (i refrain: “lo abbiamo modificato quando tutti ci dicevano che non potevamo farlo”; “abbiamo incassato tutte le rate cosa che nessuno ha fatto in Europa”) getta lunghe ombre. Nonostante gli sforzi del ministro Fitto, certamente un gran lavoratore dopo aver accentrato nel suo ufficio tutti i Fondi di spesa, dal Pnrr ai Fondi coesione. Proprio in queste ore l’Ufficio parlamentare di bilancio ha valutato l’ultimo decreto che ha modificato il Pnrr e ha illuminato quello che i giornali avevano già ribattezzato “il gioco delle tre carte”.

In pratica per finanziare i nuovi progetti del Piano di ripresa e resilienza vengono tagliati investimenti previsti da altri fondi di spesa. Il nuovo Piano rivisto e approvato dall’Europa prevede sedici miliardi aggiuntivi che sono sedici miliardi in meno per i Comuni e per i ministeri. Il più penalizzato è il Fondo Sviluppo e coesione (5 miliardi) che riserva l’80 per cento delle risorse al Sud. La ragione sembra andare a quei governatori del sud che stanno denunciando lo scippo di risorse al territorio che ne avrebbe più bisogno. Ma, secondo Fitto, non lo sa utilizzare. La presidente dell’Upb Lilia Cavallari ha definito “non esaustive le informazioni sulla destinazione delle nuove risorse e sui definanziamenti”. E ha invitato il governo ad essere più chiaro e preciso già a partire dal Def indicando con precisione l’impegno annuale sulle misure del Pnrr e su quelle del Piano nazionale complementare (il fondo gemello svincolato però dai check di Bruxelles). Il punto è che anche il Pnc è stato svuotato alla ricerca di coperture. Come possono testimoniare le Regioni che hanno visto un taglio di un miliardo e 200 milioni al fondo dedicato all’edilizia ospedaliera.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.