L’amministrazione Trump prende forma, mancano ancora diverse caselle dell’intricata macchina burocratico-politica di Washington, ma possiamo già tracciare un primo indirizzo di questo Trump 2.0.
L’attesa, soprattutto quella di analisti e commentatori, era focalizzata sul capire quali criteri il neo presidente avrebbe infine privilegiato. Se la mera ceca fedeltà oppure qualcosa di più. Del resto Trump nel suo prima mandato finì per privilegiare da una parte il suo “staff”, quello del primo originario “MAGA”, nei ruoli ombra, ma non troppo della Casa Bianca, affidando la guida dei Dipartimenti a manager e generali, nulla di diverso dalle altre amministrazioni precedenti, ma con una differenza sostanziale che la stampa liberal americana non ha mai mancato di far denotare.
Il Trump che licenzia
Trump infatti veniva da un mondo quello dell’impresa privata, non aveva mi avuto esperienze politiche pregresse, e dunque non era incline ad un rapporto fondato anche all’interno della “Casa Bianca”, degli staff, tra i consiglieri e gli apparati federali, del tipo che noi qui da questa parte dell’oceano definiremmo bizantino. Trump al contrario viveva il rapporto fondato su di un assoluto e imprescindibile schema gerarchico. Basato anche sui risultati, e non casualmente il neo Presidente ha ribadito più volte che se i collaboratori non dimostrano di essere “i migliori”, “io – dice Trump – li licenzio”, che è poi il suo mantra dai tempi di “The Apprentice” il programma televisivo alla base della sua ascesa politica.
Il messaggio trumpiano
Ma in questi otto anni la geografia politica americana è cambiata profondamente, non solo perché oggi il partito repubblicano è il partito di Trump, mentre nel 2016, il partito aveva accettato Trump, ma l’establishment era profondamente legata al vecchio modello di partito. Oggi non è più così né nei numeri al Congresso né nell’elettorato repubblicano che è profondamente ancorato al messaggio trumpiano. Questo consente a Trump di avere un partito allineato sul suo messaggio politico, sul suo programma elettorale, con membri di quello che con molta fascinazione viene definito il partito nel partito, appunto il “MAGA”.
I fidati di Trump
Questa volta Trump può contare sul suo di establishment e non ha necessità di scendere a compromessi, e in quest’ottica va interpretato il doppio no riservato a Pompeo e Haley. Preferendo invece nominare Segretario di Stato Marco Rubio, senatore repubblicano, tra gli sfidanti di Trump nel 2016, e come Ted Cruz l’altro sfidante uno degli Alfieri di Trump in questi ultimi quattro anni. Rubio non è una “Maga” della prima ora, ma un uomo dell’establishment di Washington. Michael Walz, sarà il prossimo consigliere per la sicurezza nazionale, Else Stefanik deputata al Congresso, stella del trumpismo sarà ambasciatrice alle Nazioni Unite. Al Dipartimento della Sicurezza Nazionale andrà la governatrice del South Dakota Kristi Noem, all’ambiente, tema caldo in vista dell’uscita degli Stati Uniti dagli accordi di Parigi, va Lee Zeldin avvocato ex deputato repubblicano. Uno dei posti più ambiti, quello di capo della CIA, è stato assegnato a John Ratcliffe, già direttore negli ultimi mesi della precedente amministrazione Trump dell’intelligence nazionale. Queste nomine si unendosi a quella di Susie Wiles a “Capo dello Staff” iniziano a definire la nuova geografia del potere trumpiano.
Il ruolo di Elon Musk
La nomina più attesa però soprattutto dal “gossip” politico era quella di Elon Musk, ormai protagonista indiscusso della scena politica globale. Il patron di Tesla e SpaceX andrà insieme a Vivek Ramaswamy al nuovo dipartimento per efficientare e dunque tagliare gli sprechi nell’amministrazione federale. Trump ha paragonato l’azione de duo Musk/Ramaswamy un “un nuovo progetto Manhattan”. Ci sono caselle importanti da riempire che diranno molto sulla nuova amministrazione, sembra però che Trump sia riuscito almeno per ora a superare la dicotomia ornitologica tra cosiddetti “falchi” e cosiddette “colombe”, ormai entrare di diritto nel dizionario della politica statunitense e non solo.
La transizione è iniziata e l’incontro tra Trump e Biden sancisce la fine di una pagina drammatica per la democrazia americana, che negli ultimi quattro anni ha raggiunto livelli di crisi impensabili. Da qui a poche settimane tutte le caselle saranno riempite e il 20 gennaio Donald Trump darà il via alla sua nuova amministrazione, consapevole questa volta di avere in mano tutto il partito repubblicano e di essere egli stesso divenuto establishment.