Secondo l’art. 68, comma 3, della Costituzione per sottoporre il parlamentare “ad intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di corrispondenza” il giudice deve essere autorizzato dalla camera di appartenenza. Ciò nonostante, anzi piccandosi di opporre “questioni giuridiche” a dibattitti e decisioni “sempre e solo guidati dalla convenienza politica”, il sen. Grasso ha sostenuto in Aula (22 febbraio) la legittimità dell’operato della Procura di Firenze.

A suo dire, infatti, essa non era tenuta a chiedere la preventiva autorizzazione del Senato per sequestrare la corrispondenza tramite mail e messaggi WhatsApp tra il sen. Renzi ed un terzo (Carrai), estraendoli dal cellulare di quest’ultimo. Ciò essenzialmente per tre motivi: 1) per consolidata giurisprudenza della Cassazione i messaggi via mail, sms o WhatsApp, una volta ricevuti dai destinatari perdono d’attualità, trasformandosi da corrispondenza in semplici documenti, per il cui sequestro non occorre alcuna autorizzazione parlamentare, tanto più quando, come nel caso specifico, diretto contro un soggetto terzo; 2) diversamente, sostenere la necessità della preventiva autorizzazione parlamentare significherebbe paradossalmente richiedere al magistrato di essere un veggente in grado di prevedere la presenza di comunicazioni di e con un parlamentare nel dispositivo elettronico che egli vorrebbe sequestrare ad un terzo; 3) infine, il diniego dell’autorizzazione al sequestro di tali comunicazioni comporterebbe la loro inutilizzabilità processuale anche nei confronti del terzo, il quale godrebbe indirettamente di tale “scudo”, per cui “basterebbe che in un telefono sequestrato a un mafioso vi fosse un messaggio inviato a un parlamentare per determinarne la inutilizzabilità anche nei confronti del mafioso”. Tre argomenti puntuali che meritano altrettante puntuali confutazioni.

In primo luogo, già su queste colonne lo scorso 24 febbraio Giovanni Guzzetta ha evidenziato come, per giurisprudenza altrettanto autorevole della Cassazione civile e della Corte europea dei diritti dell’uomo, la tutela costituzionale della inviolabilità della libertà e della segretezza “della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione” – che solo l’autorità giudiziaria può limitare “per atto motivato” e “con le garanzie stabilite dalla legge” (art. 15 Cost.), non si esaurisce nel momento in cui il messaggio viene ricevuto ma si protrae fintantoché mittente e destinatario lo considerano attuale, impegnandosi reciprocamente al vincolo della segretezza (al limite fino alla morte quando le loro comunicazioni potrebbero acquisire valore storico, artistico o letterario, come nel caso delle corrispondenze epistolari). Degradare la comunicazione a mero documento perché non più in fieri ma conclusa significa allora limitare significativamente la suddetta tutela costituzionale, con la conseguenza, ad esempio, che l’autorità di pubblica sicurezza potrebbe sequestrare i messaggi via mail, sms o WhatsApp invocando ragioni di necessità ed urgenza che invece l’art. 15 Cost., a differenza dei precedenti due articoli sulla libertà personale e di domicilio, espressamente non prevede per la libertà di comunicazione.

Ma c’è di più, molto di più. Qui si tratta della corrispondenza di e con un parlamentare, per il cui sequestro, come detto, l’art. 68.3 Cost. richiede l’autorizzazione della Camera di appartenenza. Non si tratta di un privilegio del singolo parlamentare in quanto tale (la cui libertà di comunicazione è già protetta come detto dall’art. 15 Cost.) ma di una prerogativa “strumentale (…) alla salvaguardia delle funzioni parlamentari” di modo che intercettazioni o sequestri di corrispondenza non siano “indebitamente finalizzat[i] ad incidere sullo svolgimento del mandato elettivo, divenendo fonte di condizionamenti e pressioni sulla libera esplicazione dell’attività” (Corte cost. 390/2007). Se questa è la ratio di tale prerogativa, limitarla alle comunicazioni solo in corso di svolgimento e non già concluse, significa darne una interpretazione così restrittiva da vanificarla di fatto. Non l’ha fatto, ovviamente, la Corte costituzionale la quale, nella stessa sentenza sopra citata, ha espressamente chiarito che il sequestro di corrispondenza del parlamentare può avere ad oggetto anche “documenti a carattere comunicativo”. Documenti, dunque, che riportano il contenuto della comunicazione, che continua ad essere costituzionalmente protetta anche dopo la sua conclusione.

Del resto è lo stesso principio che, mutatis mutandis, ha portato la Corte costituzionale ad accogliere il conflitto di attribuzioni sollevato dal Presidente Napolitano contro la Procura di Palermo che ne aveva casualmente ascoltato le comunicazioni intercettando l’ex sen. Mancino. In quel caso, infatti, il giudizio non dipese dall’attualità o dal tipo della comunicazione, cioè dall’intercettazione della comunicazione presidenziale mentre si stava svolgendo, ma dalla necessità di tutelare, indipendentemente dal mezzo impiegato, l’interesse costituzionalmente protetto di consentire “l’efficace svolgimento delle funzioni di equilibrio e raccordo tipiche del ruolo del Presidente della Repubblica nel sistema costituzionale italiano” (Corte cost. 1/2013). Di fronte ad argomenti così chiari e di tale peso costituzionale, voi credete che la Corte costituzionale avrebbe preso una decisione diversa se Mancino, anziché telefonare al presidente Napolitano, gli avesse mandato un sms o una mail, sposando la tesi del sen. Grasso secondo cui in quel caso si era in presenza di documenti e non di forme di comunicazione degne di eguale tutela costituzionale? Suvvia…

Peraltro, seguendo la tesi dell’ex pm e Presidente del Senato, sarebbe molto facile per i pubblici ministeri eludere l’obbligo costituzionale di autorizzazione preventiva per acquisire agli atti la corrispondenza del parlamentare: anziché intercettarne le comunicazioni del parlamentare nel momento in cui si svolgono, basterebbe attenderne la conclusione e poi sequestrare il device in cui è vi è traccia del suo contenuto.
Anche le altre due argomentazioni del sen. Grasso sono confutabili, sempre alla luce della giurisprudenza costituzionale. L’obbligo di autorizzazione non implica alcuna capacità divinatoria del pubblico ministero, né alcuna impunità del terzo che abbia comunicato con un parlamentare. Molto semplicemente: se il pubblico ministero vorrà utilizzare contro un parlamentare le sue conversazioni occasionalmente trovate nel device sequestrato ad un terzo, dovrà chiedere successivamente la relativa autorizzazione alla camera di appartenenza.

Se invece vorrà utilizzarle contro il terzo, lo potrà sempre fare perché, come chiarito dalla Corte costituzionale nella stessa sentenza n. 390/2007, tale materiale probatorio è sempre e comunque utilizzabile, indipendentemente dall’esito della richiesta di autorizzazione; altrimenti si avrebbe una “irragionevole disparità di trattamento fra gli indagati, a seconda che tra i loro «interlocutori occasionali» vi sia stato o meno un membro del Parlamento”. È vero che tale ipotesi è oggi prevista solo per le intercettazioni c.d. indirette (art. 6 l. 140/2003), cioè a quelle nei confronti di soggetti terzi cui il parlamentare partecipa casualmente, ma, per rime obbligate, essa si può agevolmente estendere anche alle comunicazioni altrettanto indirette (art. 4), fermo restando che, come sostenuto dal sen. Grasso, tale legge andrebbe espressamente modificata in tal senso.

È questa l’unica considerazione condivisibile nel contesto di argomentazioni che suscitano preoccupazione non solo e non tanto per le asserite motivazioni giuridiche addotte a sostegno di una pur rispettabile posizione politica, quanto soprattutto per la loro mancanza di prospettiva costituzionale che tragga ispirazione dell’esigenza di tutelare il libero svolgimento del mandato parlamentare, anche attraverso quella sua dimensione ormai essenziale che è la comunicazione in via non più cartacea ma digitale.