La decadenza del calcio italiano porta con sé i germi della decadenza dell’Occidente. Con gli evidenti distinguo, naturalmente. Ma la figura di Gabriele Gravina (numero uno della Federcalcio) non è poi così dissimile da quella di Joe Biden. I fatti ululano l’inadeguatezza di entrambi ma il sistema è talmente corroso che non ha la forza di combatterli ed espellerli, preferisce rimanere lì ad aspettare il disastro. È la versione politica di Don’t look up. Con la variante che il disastro può essere reiterato. Anche perché nel frattempo ci si abitua. La prima mancata qualificazione al Mondiale provocò un’ondata di indignazione. La seconda già meno. Il fallimento agli Europei ci ha trovato tutto sommato preparati. Qualche borbottio e poi tutto è calato nel silenzio.

Gravina è il rappresentante italiano di un sistema che già globalmente non se la passa benissimo. Il calcio è in difficoltà un po’ ovunque, persino l’Arabia Saudita ha scoperto che non bastano spruzzate di dollari per garantirsi lo show business. In Francia la battaglia sui diritti tv rischia di far fallire la metà dei club. In Inghilterra la squadra che ha dominato negli ultimi anni, il Manchester City, è sotto processo per doping finanziario. La Fifa – il governo mondiale del calcio – non riesce a trovare gli sponsor per organizzare il Mondiale per club. Il prodotto calcio vive una crisi a livello globale. I calciatori guadagnano troppo. Mediatori, procuratori, faccendieri sono proliferati. La partita di 90 minuti più recupero è considerata dalla generazione Z un prodotto obsoleto, lungo e noioso.

Il metodo cooptazione

In questo scenario si è poi innestata una specificità italiana. Da anni il nostro calcio si è convintamente allontanato da una qualsivoglia idea di meritocrazia e ha optato per un più rassicurante metodo di cooptazione. Di conseguenza ora l’intera baracca si regge su un molle ammasso di reciproci favori, familismo, convenienze di corto respiro. Chessò, il presidente del Coni Malagò si mostra rammaricato per gli Europei ma il suo obiettivo è ottenere un altro mandato: perché inimicarsi il presidente della Federcalcio? Presidente la cui compagna è Francisca Ibarra, sorella dell’ex amministratore delegato di Sky, Maximo Ibarra. Sono solo due tra mille esempi di cuginanza. Il risultato è che bene o male sono tutti coinvolti, tutti legati a doppio filo. Non c’è una vera e propria battaglia politica, con fronti contrapposti, idee e programmi diversi. La parola d’ordine comune è: sopravvivere.

Il coraggio di Sky Sport

In questa matassa è complicato estrarre una compiuta disamina analitica. Anche perché non esiste solo la Federcalcio. C’è anche la Lega Serie A, altro coacervo di egoismi privo di visione. Per limitarci a un solo esempio, nell’asta dei diritti tv i club preferirono accettare l’offerta più ricca di Dazn senza preoccuparsi di quanto la qualità del servizio (tecnico e giornalistico) avrebbe finito col danneggiare il prodotto Serie A. Da noi nessuno ha il coraggio di ammettere quanto abbia fatto bene a Sky rinunciare all’esclusiva del campionato italiano. Hanno Sinner (tutto il tennis), Bagnaia (la MotoGp), la Formula Uno, l’Nba, la Premier League, la Champions, gli Europei (e altro che dimentichiamo). E veleggiano sorridenti e sereni senza dormire durante Frosinone-Empoli o Venezia-Udinese.

Da Yamal a Retegui…

I più sbrigativi direbbero che in realtà è tutto molto semplice: la Spagna ha Yamal, l’Inghilterra ha Bellingham, la Francia ha Mbappé, l’Italia ha Scamacca e va a pescare in Argentina un certo Retegui. Questa è l’evidenza. Ma guardiamo anche qualche causa. Da noi uno come Yamal nemmeno potrebbe giocare in Nazionale (ricordate il famoso ius soli?). Così come non avrebbe potuto giocare Saka ala destra dell’Inghilterra. In più, dal 2017, un anno prima dell’avvento di Cristiano Ronaldo, il calcio italiano ha ottenuto l’approvazione del famigerato decreto Crescita che consentiva ai club di pagare le tasse solo sul 50% degli stipendi dei lavoratori acquistati dall’estero.

“Il ritorno dei cervelli”…

La montatura mediatica fu “il ritorno dei cervelli”. Il sistema calcio lo curvò alle proprie esigenze. Una legge che andava bene a tutti i presidenti di Serie A, e che ovviamente ha finito col ridurre drasticamente lo spazio per i giovani italiani che hanno continuato a vincere (o quasi) i tornei juniores per poi rimanere nelle serie minori o emigrare all’estero nelle seconde squadre di grandi club. Ora che il decreto Crescita è stato eliminato, i club di Serie A hanno strepitato. Loro la Nazionale la chiuderebbero oggi, nemmeno domani.

Le elezioni e la mossa gattopardesca

Il tracollo agli Europei non ci ha certo colti di sorpresa. Ora, però, passare alle vie di fatto è complicato. In un sistema sano, con maggioranza e opposizione, ci sarebbe il cambio della guardia. Ma quando tutto è impiastricciato, è più complicato. Gravina sa di essere sotto attacco. Il ministro Abodi e persino Giorgia Meloni sono stati stranamente inequivocabili sulla mancata assunzione di responsabilità dopo la disfatta. Ma Gravina sa anche di avere la maggioranza. Ha reagito con una mossa alla Macron, ha anticipato le elezioni. Ora è calato il silenzio. È scattata la fase delle trattative sotterranee. C’è chi ipotizza un passo indietro per il ritorno di Abete, l’uomo che lasciò dopo l’eliminazione ai gironi nel Mondiali del 2014. Una mossa gattopardesca. E quindi possibile. Vedremo. Di certo ci vorrà un uomo che si assumerà il rischio di giocare le qualificazioni Mondiali con Spalletti in panchina. Spalletti di cui Aldo Grasso ha detto: «Fa un discorso di senso compiuto di venti secondi e poi non si capisce cosa voglia dire».