Il caso
Graziano Mesina e la fuga dal carcere a vita
Gratzianeddu s’avanza sul corso Garibaldi, l’ombra lunga, spropositata, sulla strada, a dispetto di un’altezza scarsa compensata dal magnetismo di uno sguardo che annulla ogni altra parte del corpo. Occhiate complici, che si scambiano con i ribelli tratteggiati sui murales. Orgosolo sa di Messico, di rivoluzioni inutili che si susseguono non per risolvere ingiuste sconfitte sociali, ma al solo fine di perpetuare il conflitto: fra lo Stato e uno spirito pagano, irredento e irredimibile. Graziano Mesina è la prova evidente che il carcere sia una afflizione che non serve, se il fine non sia la pacificazione fra l’individuo e la collettività che lo costringe a limare le proprie libertà, anche i propri vizi.
Gratzianeddu ha trascorso in galera la maggior parte dei suoi 78 anni, si incontra e divorzia dal carcere da quando aveva 14 anni e fu sorpreso con un fucile da caccia rubato. Fughe e carcerazioni, che si sono alternate col respiro corto, che ancora una volta si affrontano. Ma ora lo scontro è quello definitivo: la Cassazione ha reso irrevocabile una condanna a trent’anni per traffico di droga. La Grazia che gli era stata concessa nel ‘92, in concomitanza con la liberazione di Faoruk Kassam, decade. Sarà prigione per sempre, fino alla morte, se vince lo Stato. Così, il giorno in cui la sua pena diventava definitiva in Cassazione, Mesina non ha attraversato il corso Garibaldi, per andare a firmare il registro nella caserma dei carabinieri, come faceva da un anno, da quando era uscito dal carcere per la scadenza dei termini di custodia cautelare.
I carabinieri sono corsi inutilmente a casa di Peppedda, per trovare il fratello Graziano. Sul corso Garibaldi sono rimasti, a corona, gli sguardi dei vecchi, coevi di Gratzianeddu, che per anni lo hanno visto solo nelle sue ore di libertà. Hanno occhi murati, puoi guardarci dentro quanto vuoi, non lo si trova un indizio di verità, né se della fuga siano contenti o meno, o se l’abbiano odiato o amato Graziano. Sono occhi, però, che questa storia l’avrebbero potuta raccontare prima che accadesse, prima dell’ultima fuga, prima del primo arresto.
Storie così da queste parti galleggiano nell’aria che arriva dalle grotte del Gennargentu. Storie così hanno il sapore dei lecceti, delle sugheraie del Supramonte, sanno del rancido del formaggio di pecora che il pastore si trascina dietro, per sfamarsi, nelle transumanze infinite che da queste parti avvincono uomini e bestie. Chissà cosa sceglierà Gratzianeddu: la libertà montana del latitante, fatta di cambi continui di ovile, di solitudine che toglie il fiato, grotte umide e sudore che si attacca al velluto delle eriche? O quella libertà a termine delle comodità di paese, cittadine? Se sceglierà la civiltà primordiale e intonsa della Barbagia, o un obiettivo da cine giornale, per recitare un’ultima volta la parte del bandito romantico?
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