Alla fine, saremo costretti a dire grazie ad Alfredo Cospito! Un grazie che non significherà, certamente, ignorare o, ancora peggio, giustificare i crimini che ha commesso. Gambizzare un uomo e rovinare la sua vita e quella della sua famiglia, solo perché è un dirigente di industria, o creare una trappola potenzialmente mortale contro i carabinieri di una delle tante stazioni, che assicurano la presenza dello Stato nel Paese, sono atti criminali. Il fatto che, per un caso fortunato, non vi siano stati morti nulla toglie alla efferatezza della condotta di Cospito. E, allora, perché saremo costretti a ringraziarlo?

È presto detto. Con il suo sciopero della fame, portato avanti a oltranza, sta mettendo a nudo, l’una dopo l’altra, le falsità e le ipocrisie, che hanno reso il dibattito sulla Costituzione e sulla giustizia una pantomima vuota di contenuto e densa di disonestà intellettuale. Il tema che Cospito sta ponendo, con la drammaticità che deriva dall’usare il suo corpo per la battaglia, è se il regime carcerario del 41 bis sia degno di un paese civile. In questi termini essenziali, la questione è di un tale rilievo oggettivo da rendere del tutto trascurabile se chi la solleva sia o no un criminale. Anzi. Occorre riconoscere che Cospito ha avuto la capacità, usando il proprio corpo, di portare all’attenzione dell’intera collettività una questione che, sinora, era restata confinata alla considerazione di pochi addetti ai lavori. Questo giornale, che da sempre si batte affinché fosse affermata la illegittimità del regime carcerario del 41 bis è stato, su questo punto, una voce solitaria in un deserto fatto di silenzio e di cattiva informazione.

Alla fine a cosa si riduce la questione posta da Cospito se non a una domanda molto semplice? Uno Stato civile può colpire nel profondo gli aspetti essenziali della dignità di una persona, per quanto abietta sia stata la sua condotta? La domanda, nel momento in cui prende in considerazione la condotta dello Stato, è laica e non può che ricevere una risposta laica. L’unica via idonea per sfuggire all’inevitabile soggettivismo, che la risposta ad una domanda del genere inevitabilmente comporta, è quella segnata dai valori espressi dalla Carta fondamentale, su cui si fonda la convivenza tra i cittadini italiani: la Costituzione repubblicana. È inutile ribadire qui, siccome più volte oggetto di approfondimento da parte di questo giornale, quanto drammatico sia il contrasto tra il regime carcerario che va sotto il nome di 41 bis e i principi costituzionali.

Nessun rispetto di questi ultimi e, in particolare, di quelli previsti dagli artt. 2 e 27, che sanciscono il rispetto dei diritti inviolabili della persone e il divieto di pene che si risolvono in trattamenti disumani e non rivolti alla rieducazione del condannato, da parte di un regime carcerario che prevede la possibilità, per tutta la vita, di vivere in celle senza finestre, avendo a disposizione al massimo due ore di aria in spazi ristrettissimi, di una sola ora di socialità con gli altri detenuti, senza la possibilità di sentire musica o di ricevere libri per studiare, avendo libri di lettura contingentati e controllati, avendo diritto a una sola ora di colloquio al mese con i familiari, separati da una struttura in vetro e, perciò, senza neppur poter sfiorare i figli o la moglie.

Ecco, allora, che di fronte alla questione sollevata da Cospito emergono le falsità e le ipocrisie. Innanzitutto, di quella parte del centrodestra, che si professa garantista, che testualmente significa rispetto delle regole del diritto poste a tutela della persona di fronte allo strapotere dello Stato, ma che non esita a rinnegarle quando si tratta di gettare via la chiave e murare vivi coloro, che siano stati condannati per determinati reati. Fingendo di ignorare che la Costituzione garantisce i diritti inviolabili a tutti, anche a coloro che siano stati condannati per delitti molto gravi, e che, anzi, l’art. 27 fissa i principi che devono presiedere alla esecuzione della pena senza introdurre alcuna distinzione. Ma anche il centrosinistra, che quando si parla di modifiche alla Costituzione, manifesta automaticamente una profonda avversità, proponendosi come difensore di ultima istanza della “Costituzione più bella del mondo”, mostra tutti i suoi limiti culturali e di genuinità.

Una cosa, difatti, è usare la difesa della “Costituzione più bella del mondo” come clava per abbattere gli avversari politici, che indegnamente la aggrediscono, e ben altra cosa è dare concreta attuazione a quella Costituzione, andando contro un DNA che ormai ha saldamente incorporate dentro di sé le sbarre della galera, come momento più alto della catarsi della società e come insostituibile strumento di distruzione degli avversari. Ebbene, il digiuno di Cospito, ormai portato a limiti estremi, proprio perché ha la forza della disperazione mette coloro che se ne occupano in modo ambiguo con le spalle al muro e non consente più di nascondersi dietro le parole.

Tutti, dal Ministro Nordio al Presidente del Consiglio Meloni ai cd. garantisti di Forza Italia e del Terzo Polo, ai pavidi esponenti del Partito democratico, che nella intransigenza sembrano aver individuato la loro ultima linea del Piave, confessano, di fronte alla questione Cospito, che nella Costituzione ci sono solo belle parole, che è inutile stare lì a preoccuparsi di come applicare in concreto. Basta solo fare vacui proclami di fedeltà e, per il resto, affidarsi ai monologhi del Festival di San Remo.