“America, ti ho dato il mio meglio” gridava dalla sua icona illuminata un Joe Biden, che gli effetti e i miracoli delle luminarie delle grandi occasioni rendevano, lui così mingherlino e malfermo, un gigante: sorridente, non un tremore. La folla scandiva “thank you”, grazie per la tua Presidenza e più ancora per esserti tolto dai piedi restituendoci la speranza di vincere l’orrido mostro. Visto dalla convention democratica, Donald Trump – sempre presente come un ologramma nemico di tutto ciò che l’America è stata finora, inventore degli slogan “America First” e “Make America Great Again” che condivide con Elon Musk in crisi mistica perché un figlio ha scelto di essere femmina – sembra sbiadito, assente, politicamente disarticolato.

Partiamo dall’Italia: sveglia alle tre del mattino, per vedere Hillary Rodham Clinton, 76 anni e moglie dell’ex presidente Bill, prima donna a correre per la Casa Bianca perdendo proprio contro Obama. Fu nominata poi Segretario di Stato, cioè ministro degli Esteri, carica in America molto più importante di quella di vicepresidente che, di norma, è una figura che appare o scompare secondo le necessità del Presidente, senza incarico a meno che non ne riceva uno personale: Bill Clinton delegò al suo vice Al Gore il settore ecologico e ambientalista, ma fu un caso raro, perché il vicepresidente è una creatura solitaria che vive in un’ala di White House frequentata solo dagli uomini del Secret Service. Questa è l’unicità e curiosità di questa Convention: ne è protagonista una donna che – benché abbia abitato per quattro anni alla Casa Bianca e compaia in milioni di “Photo-op”- si illumina della particolare luce che investe una candidata alla Casa Bianca, una che era sempre stata lì, si può dire, ma cui pochi avevano fatto caso.

Si è materializzata dopo la rinuncia di Joe Biden e soltanto allora è diventata visibile, colorata, con un’espressione che riconoscono tutti, tanto quanto prima era stata insignificante. Adesso, caso sempre più frequente, parla con pericolosa scioltezza nel suo modo didascalico che parte dall’ovvio ma procede pieno di pause, per poi risolversi in imprevisti scoppi di risa. Quanto all’estromesso Joe Biden (nel Partito si parla di “a nice coup”, un colpetto di Stato) ieri a Chicago si è sottoposto alla prevista tortura di far buon viso a cattivo gioco e ha parlato ben microfonato fra fantasmagorie sulla scala del blu, musiche di ottoni muggenti, violini e fruscio di bandiere, sicché tutti hanno potuto assistere alla tragedia decorata dai colori hollywoodiani. Pur sempre una tragedia: il fragile ma stizzito presidente in carica, separato dal pianeta grazie a una specie di palco spaziale, elegantissimo e ringiovanito dal make-up e dalle luci, sembrava il comandante alieno di una rivoluzione galattica che scandiva senza tentennamenti un discorsetto che gli è stato scritto e riscritto, provato e riprovato e ancora riprovato. E cominciava con le parole che citavamo all’inizio: “America, ti lascio quanto ho di meglio”.

Oggi la corrente predominante nel PD è quella che pensa: il nostro iddio God per fortuna ci ha regalato una candidata che, senza esibire grande vitalità, non confonde Zelensky con Putin. E poi riempie barili di intenzioni di voto perché è donna, perché la sua pelle è brownish senza essere black (“ognuno in America ha il diritto di dichiararsi della razza che vuole”), e sono sue fan sia le bianche che le nere, e poi perché è di sentimenti più filopalestinesi di Biden. E va bene benché soffra di questa risata compulsiva a causa della quale decine di imitatrici si sono scatenate sfottendola, pronunciando discorsetti lenti e demenziali e poi scoppiando in un “fou rire” – in toscano la ridarella – convulso e senza freni.

È un modesto difetto, ma quel modo di ridere è comunque un antidoto all’odiosa espressione “grumpy” – sempre aggressiva, sempre incazzata – di Donald Trump, il quale è spiazzatissimo di fronte a Kamala: non sa da che parte prenderla, a parte l’irritante accusa di spacciarsi per nera senza esserlo. Lui era pronto sul ring per Biden e, onestamente, non sa che dire a Kamala. Sicché ripete con cipiglio solidarista che il povero Biden – il suo amato nemico – è stato espulso da un gruppo di malfattori formato da Kamala Harris, dall’ex speaker della Camera Nancy Pelosi, dai coniugi Hillary e Bill Clinton e dalla coppia di Barak e Michelle Obama. Tutti insieme, hanno, secondo Trump, congiurato per privare lui del suo competitor “Sleepy Joe”, l’addormentato. Contro Kamala, Trump non ha trovato ancora il suo passo e dunque può perdere. E il Partito democratico, dato per morto insieme alla tradizione di politica estera americana, sta rinascendo perché la candidatura Harris funziona. I grafici dei sondaggi si sovrappongano, ma con piccoli sorpassi se Kamala Harris si fa accompagnare ai rally dall’invecchiato rampollo della casata di più alto lignaggio: Robert Kennedy Jr. membro del Congresso, eloquente non sempre sobrio con l’accento bostoniano di famiglia, figlio di Robert, il fratello del presidente ucciso John, assassinato a sua volta a un passo dalla presidenza.

Se Robert accompagna Kamala, il nome dei Kennedy fa decollare la candidata di quel mezzo punto che permette di sognare il sorpasso. Se è al suo fianco il campestre vice Tim Walz, Kamala va sotto Trump.
Thank you Joe!” ha gridato a Biden la folla della Convention a Biden: grazie per il prezioso lavoro, ma più che altro per esserti levato dai piedi al momento giusto. Biden ha sconfitto più volte le lacrime e ha sfoderato il sorriso cinematografico, bello come un cartone animato, guardando i cartelli con l’emoji di un cuore fra “We” e “Joe”, ti amiamo. Ha farfugliato un paio di deprecabili battute sull’età, ha terrorizzato i manager negli attimi di pausa e ha sibilato la quasi-verità: “Amo il mio posto da presidente, ma amo ancora di più il mio paese. E a coloro che mi immaginano amareggiato per aver lasciato la Presidenza, voglio rassicurarli perché non è assolutamente vero”. Poveretto, piange moltissimo e ha momenti di furia. Mai “excusatio” fu meno “petita”.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.