Ai traduttori andrebbe fatto un monumento. Senza di loro non sapremmo niente di Tolstoj, Proust, Cervantes. O dei fratelli Grimm o Philip Roth. Si pensa, stupidamente: e che ci vuole a tradurre? Basta sapere la lingua! Invece no. È molto, molto difficile. In Italia abbiamo dei grandi traduttori – è una lunga tradizione, d’altronde. Silvia Pareschi è tra questi. Ha scritto un ottimo libro, “Fra le righe – Il piacere di tradurre” (Laterza, pagg. 144), nel quale ci prende per mano e ci conduce in questo mondo che è molto più complesso di quanti si pensi: «A volte per tradurre una parola non basta un dizionario», scrive. No. Per farla breve diremmo che serve la vita, il suo battito, per afferrare e rendere in italiano quello che lo scrittore voleva dire.

Le abbiamo chiesto se un traduttore mentre traduce “diventa” lo scrittore che sta traducendo o resta sé stesso. «Forse è un po’ esagerato dire che “diventiamo” gli autori che traduciamo – ci ha detto Pareschi – ma è vero che tra le doti di una brava traduttrice c’è anche l’empatia. A me piace dire, scherzando, che quando traduco adotto il metodo Stanislavskij. Non sempre ci riesco, e non tutti lavorano così, ma è vero che per tradurre è essenziale saper mettere a tacere la propria voce e ascoltare con attenzione quella del testo». Sembra facile. Dietro la traduzione c’è una sofferenza: che direbbe Flaubert su come lo sto mettendo in italiano?

Adesso Pareschi, che è passata persino per Hemingway (“Il vecchio e il mare“), ha tradotto Shirley Jackson (“La strada oltre il muro”, Adelphi): «La difficoltà di tradurre Jackson sta nel riuscire a mantenersi in equilibrio fra l’apparente normalità delle situazioni che descrive e il senso di inquietudine che serpeggia costantemente sotto la superficie. Ma una volta trovato il tono giusto, il resto scorre via senza troppi problemi. Gli unici libri davvero difficili da tradurre sono i libri scritti male, e questo non è certo il caso di Jackson». Questo può valere per motivi romanzieri, per quelli che usano contemporaneamente, nella stessa frase, registri diversi: gli americani, per esempio.

A Silvia Pareschi dobbiamo le grandi traduzioni di Jonathan Franzen, che è anche diventato suo amico, e che a lei, per il grande successo in Italia, deve molto: «Sì, lo sa, me lo dice spesso! Franzen è, fra tutti gli autori che traduco, forse il più consapevole dell’importanza di una buona traduzione per il successo di un libro. Questo perché anche lui traduce, nel suo caso dal tedesco. Con lui, fin dai tempi della traduzione de “Le correzioni”, si è instaurata una fitta corrispondenza, che si è evoluta anche in un confronto con i suoi traduttori in altre lingue. Lavorare con un autore così attento alla qualità della traduzione è uno dei piaceri di tradurre di cui parlo nel mio libro». Continua così, cara Silvia Pareschi, tu e gli altri eroi della traduzione di cui non potremo mai fare a meno, come l’aria o il sole che sorge.