Green Deal, la vera sfida per von der Leyen: dal taglio delle emissioni al lancio di un piano industriale

Il fuoco incrociato, nel Parlamento europeo, è un pericolo per Ursula von der Leyen non meno di quanto lo sia la diffidenza che, al momento, le imprese le rivolgono. Gli equilibrismi del programma presentato a Strasburgo sono finalizzati proprio a evitare i voltafaccia da Ppe, socialisti e verdi prima ancora che la Commissione venga alla luce. Tuttavia, il rischio più concreto viene dal mondo produttivo. A fare la differenza, in questa legislatura, sarà proprio il rapporto con quell’ambiente che, negli ultimi cinque anni, si è sentito messo in discussione, discriminato, se non addirittura accusato di essere il solo responsabile del cambiamento climatico.

Durante il primo governo von der Leyen, il Green Deal è stato portato avanti senza lasciare ampi margini di compromesso. Tuttavia, sarebbe superficiale addossare le responsabilità soltanto a Frans Timmermans, il commissario olandese che, fino allo scorso anno, ha tenuto saldamente nelle sue mani il dossier sulla transizione ecologica. Il processo europeo di deindustrializzazione risale ad almeno vent’anni fa. Ovvero a quando Bruxelles, certo convinta dai Paesi del Nord Europa, si era illusa di poter smantellare il manifatturiero, lasciandolo alle economie extra Ue in quanto settore anacronistico con il processo di digitalizzazione in corso. Oggi auto, energia e materie prime dimostrano quanto quella strada sia stata incauta. «Sarebbe altrettanto sbagliato, però, credere che sia tutto finito», dice Paolo Kauffmann, fondatore di Faro Club, una community di imprenditori e professionisti, dedicata al risk management e alle politiche di ottimizzazione degli acquisti di materie prime.

«Dopo anni di errori, abbiamo la possibilità di ricominciare da dove ci siamo interrotti». Questo ottimismo nasce dalla convinzione che l’Europa abbia ancora molte frecce nella sua faretra. «Penso semplicemente all’Italia – dice ancora Kauffmann i cui prodotti sono amati e ambiti. Tuttavia, serve lungimiranza, investire nella ricerca e capire quali siano davvero quegli interessi nazionali che possono farci tornare a essere competitivi». Le intenzioni della Presidente von der Leyen sembrano andare in questa direzione. Da un lato infatti, viene confermata la rotta del Green Deal, con il taglio del 90% delle emissioni di CO2 entro il 2040. Dall’altro però, si intende lanciare entro i primi cento giorni di governo in piano industriale, che accompagni la transizione ecologica, senza compromettere il valore del manifatturiero. “Abbiamo bisogno di un nuovo Deal industriale green per industrie competitive e posti di lavoro di qualità nei primi 100 giorni del mandato”, si legge nel documento programmatico, che però non specifica come queste iniziative verrebbero finanziate.

Le imprese possono fidarsi di queste buone intenzioni? È presto per dirlo. È evidente che la data sulle emissioni e la promessa di un Industrial Deal siano funzionali a tenersi buoni i voti rispettivamente di popolari e verdi. Appunto il cerchiobottismo di cui si diceva. Quello che però possono fare di concreto le imprese è richiamare l’attenzione di Bruxelles sul loro ruolo. L’industria di base, con le sue risorse economiche e tecnologiche, è indispensabile per realizzare gli obiettivi del Green Deal. Nonostante tutto, l’Europa dispone di un modello produttivo che, osservato sul lungo periodo, ha ottenuto i suoi successi. «Per questo dobbiamo piantarla di confrontarci con gli Usa e con la Cina», aggiunge Kauffmann. «A Washington c’è un presidente con un potere decisionale che nessuna istituzione Ue ha. Mentre Pechino si muove a suon di piani industriali della durata di 25 anni. Anche questo è inapplicabile a casa nostra».

Dobbiamo partire da quello che ci serve, da una parte, e quello che possiamo sviluppare, dall’altra. E se le imprese stanno accogliendo con progetti veri e risultati concreti la transizione green, altrettanto Bruxelles deve capire che, senza un’industria competitiva, ci troveremmo costantemente sottomessi a Paesi ostili, che detengono oggi la maggior parte delle risorse naturali per noi irrinunciabili. Di conseguenza, perché funzioni, questo Industrial Deal deve avere tre punti di appoggio. Deve partire dalla definizione di una filiera europea delle materie prime, in grado di garantire all’industria gli approvvigionamenti essenziali. «Questo non significa buttare i soldi nella riapertura delle miniere, come invece pretende di fare il governo italiano», dice Kauffmann. «Ma nell’attrarre fondi di investimento per favorire le aggregazioni di imprese, permettendo a sua volta di avere player europei più strutturati e competitivi sul mercato globale».

È necessario incentivare lo sviluppo di nuovi materiali, per esempio l’acciaio verde – la Svezia sta già investendo in questo – definendo efficaci politiche di riciclo. I rottami di acciaio, rame, alluminio sono le vere miniere d’Europa. Materie prime secondarie che, nella transizione ecologica, non possiamo permetterci di snobbare. C’è poi il grande del mercato unico dell’energia. Le porte chiuse alla Russia ci stanno portando ad aprire canali di dialogo con regimi non meno impresentabili. In politica la spregiudicatezza è una virtù. Basta esserne consapevoli e soprattutto avere in tasca un Piano B. Quale? I biofuels possono essere una strada? Sì, se inseriti in un mix energetico che non esclude nessuna fonte energetica. Nemmeno quelle non rinnovabili.