La plenaria del Parlamento europeo, che si è chiusa giovedì a Strasburgo, verrà ricordata più che altro per la bagarre “Orban vs resto del mondo”. Una polemica che ha messo in ombra i primi tentativi di smorzare le tonalità di verde scuro date al Green Deal dall’allora Commissario all’ambiente, Frans Timmermans, cinque anni fa. Le politiche ambientali restano una legacy importante che la Commissione uscente trasmetterà a quella entrante. Sono un capitolo altrettanto articolato nel rapporto sulla competitività di Draghi.

Tuttavia, la richiesta del Ppe di rivedere il divieto di produrre dopo il 2035 auto a motore termico fa pensare che una svolta sia più rapida e strutturale di quanto previsto. Il dossier auto in Europa si sta facendo sempre più caldo. È quello che domina le prime pagine, ma non pensiamo che altri siano secondari. Pensiamo a packaging, chimica, agroalimentare. La transizione è complessa per ragioni di riconversione industriale, mercato del lavoro e mentalità del consumatore, ma anche per le incognite relative all’impatto ambientale di un veicolo elettrico. Banalmente, le batterie che importiamo dalla Cina non possono dirsi 100% green. Non fosse altro perché vengono da lontano. C’è poi il discorso del loro smaltimento e riciclo.

Tutti dossier tecnici, ancora in fase di definizione, che presto o tardi dovranno essere affrontati dalla politica. Per come stanno le cose, è prevedibile che l’approccio sarà ideologico e quindi poco risolutivo. Accolta l’obiezione per cui “potevamo pensarci prima”, qui si aprono tre riflessioni. Una di carattere economico-industriale. Se il Green Deal cambia, cosa ne sarà di quanto fatto finora? In questi cinque anni, le imprese hanno adottato buone pratiche e investito tanti soldi. Molte si sono trovate perfino all’avanguardia rispetto alla normativa Ue. Ne è nata una consapevolezza che ha avuto delle ricadute anche sul mercato del lavoro e sulla scelta sempre più frequente di figure professionali con competenze in ambito Esg.

In un sondaggio Ipsos presentato al Salone della Csr e dell’innovazione sociale, in corso in questi giorni a Milano, si legge che il 33% di imprenditori e manager intervistati valuta con il massimo dei voti le proprie iniziative in fatto di sostenibilità. Forse Draghi si è ispirato proprio a questa coscienza collettiva quando nel suo piano ha scritto che la competitività passa dalla decarbonizzazione. Da qui la necessità che un eventuale cambiamento del Green Deal sia orientato a rendere le cose più facili per chi produce. Linee guida chiare, fondi di investimenti accessibili senza dover impazzire tra le scartoffie e soprattutto evitare che si faccia tabula rasa di quanto realizzato finora. Perché un aiuto a chi sta indietro non deve rallentare chi invece è un passo avanti.

A loro volta, le reazioni dell’opinione pubblica rischiano di essere diametralmente opposte. Sempre Ipsos dice che, nel 2023, la transizione ecologica appariva troppo lenta al 59% degli intervistati. La società europea non è monolitica. Vuoi per ragioni culturali, ma ancor più per le condizioni economiche, non tutti i Paesi possono permettersi le stesse politiche di sostenibilità, a parità di costo. E non tutti i consumatori possono accedere a un prodotto la cui impronta carbonica è sempre più leggera, ma resta costosa. D’altra parte, se Bruxelles dovesse voltare completamente le spalle al mondo ambientalista, c’è il rischio di una tensione tra le sue frange più radicali. Alla collera degli agricoltori, a marzo scorso, l’Ue ha deciso di riconoscere importanti concessioni. Come si comporterebbe se si trovasse di fronte a disordini della stessa portata, ma della fazione opposta?

Un’ultima considerazione va fatta sul governo italiano. Le manovre del Ppe vanno in suo favore. Nonostante Giorgia Meloni non abbia voluto appoggiare Ursula von der Leyen, quest’ultima le sta mettendo sul tavolo una serie di carte preziose. Tuttavia, la premier italiana insiste a voler fare da ponte tra conservatori, popolari e patrioti. Lo scontro Orban-von der Leyen a Strasburgo dovrebbe convincerla, al contrario, che un’apertura a destra è una causa persa. Addirittura ininfluente, se vuole garantirsi la fiducia delle forze produttive e di quell’elettorato italiani, che credono in un Green Deal realistico e a lei si affidano perché si attui. Martedì 12 novembre, è stata fissata l’audizione di Raffaele Fitto per la sua candidatura come Commissario per la coesione e le riforme. Si tratterà di vero e proprio interrogatorio di un’ora e mezza. L’augurio è che non sia lui a dover pagare per le tessiture nostalgiche della sua premier. In quella sede o nei prossimi cinque anni.