Oltre che per fare notizia, è difficile dare oggi gran peso a sondaggi circa le intenzioni di voto, dato che le elezioni “vere” avranno luogo molto probabilmente nella lontana primavera del 2023. Tuttavia, se essi non ci possono dare previsioni su ciò che accadrà al momento delle consultazioni (non a caso, i sondaggisti sottolineano che le loro stime ipotizzano che si votasse ora), essi possono dare interessanti indicazioni sulla situazione attuale del quadro politico.
Entro questo scenario di tempi lunghi va analizzato il processo di restyling dell’ex M5S, che durerà appunto per un certo tempo. In queste more, e in attesa di vedere cosa diranno i sette saggi, il M5S attende e spera, fra mal di pancia degli uni e degli altri, una ardua palingenesi. Il Vaffa è stato spento dall’esperienza parlamentare e di Governo e le folle nelle piazze non torneranno più.

Per ora si può dire con certezza che è fallita l’Opa di Conte nei confronti del Movimento. Tentata, forse con un po’ di inavvedutezza, pensando che Grillo, soverchiato da mille problemi, politici e personali, si sarebbe messo da parte senza protestare troppo. Si intravede ora la difficile – ma nemmeno impossibile – possibilità di un accordo fra i due tronconi del vecchio M5S – da una parte quelli che sperano di salvarsi con la “contizzazione” e quelli, dall’altra, che sanno di essere esclusi, o, come forse Di Maio, pensano di poter gestire loro la trasformazione del movimento con la benedizione del fondatore. Questo accordo o armistizio (senza dubbio provvisorio) implica un evidente cedimento da parte di Conte, che ne uscirebbe ridimensionato nelle sue pretese di leader monopolistico.

Dall’altra parte, tuttavia, un recentissimo sondaggio Swg ci prospetta un quadro in cui la posizione dello stesso Conte risulterebbe piuttosto solida sia sul piano elettorale potenziale, sia su quello interno, connesso alle preferenze degli attuali elettori M5S. La maggior parte di questi ultimi, infatti, dichiara (72%) di dare ragione all’ex Presidente del Consiglio nella sua contrapposizione all’”elevato” e che, dovendo scegliere – extrema ratio – fra Conte e Grillo, preferirebbero nettamente (40%) una forza politica guidata dal primo anziché dal secondo o una (33%) in cui semmai Grillo avesse poteri limitati. Conte appare dunque piuttosto forte. Tanto che, sempre secondo Swg, un suo eventuale partito nato dalla scissione con il M5S, svuoterebbe significativamente quest’ultimo, riducendolo a meno della metà della forza attuale (7,1%), ma otterrebbe un flusso importante di consensi anche dal Pd (che si ridurrebbe al 16%), totalizzando complessivamente quasi il 13%.

Il dato più interessante del sondaggio è che la somma dei voti (virtuali) del partito di Conte e di ciò che rimarrebbe del M5S (19,8%) è maggiore dell’elettorato attuale del M5S da solo, il quale secondo lo stesso sondaggio varrebbe oggi 15,9%. L’operazione “scissione di Conte” sarebbe quindi vantaggiosa per l’area grillina, permettendo di drenare nuovi voti. La crescita dei consensi dei due partiti in caso di scissione sembra spiegarsi con un travaso di voti dal Pd verso l’eventuale partito di Conte. Certo, se un partito sostiene – come hanno fatto sia i 5S sia il Pd – che Conte rappresenta il punto di equilibrio più avanzato dell’alleanza di centro-sinistra, non c’è troppo da stupirsi che, finché non si rimangiano quello che hanno detto (come ha per ora fatto solo Grillo), il suddetto sia considerato attraente per gli elettori che vedono i partiti che avevano scelto alle ultime elezioni incapaci di esprimere un loro leader, e invece bisognosi di un podestà straniero. Non si sa cosa sta scritto nello statuto del neo-Movimento squalificato da Grillo, ma il profilo di Giuseppe Conte è con ogni evidenza quello di un leader potenziale di un altro medio piccolo partito di “centro” – dove centro vuol dire poco più che un amo gettato a potenziali elettori scontenti della destra e della sinistra ma anche dagli altri piccoli partiti.

Sin qui lo scenario attuale, in costante evoluzione. Esso però – è bene sottolinearlo – può mutare significativamente in relazione a due scadenze che sono, anche per questo, di grande rilievo. In primo luogo, le elezioni locali di questo autunno dove l’attenzione sarà concentrata soprattutto sulle grandi città. La destra in Italia è oggi decisamente maggioritaria, ma ha a disposizione più voti che candidati e potrebbe cedere o piuttosto lasciare al centro sinistra alcune importanti grandi città. Poi, all’inizio del prossimo anno il Parlamento dovrà scegliere il successore di Sergio Mattarella. Da un lato sembra poco probabile che, nonostante il fascino del Palazzo del Quirinale, Mario Draghi lasci in sospeso il fondamentale lavoro che sta compiendo come primo ministro in Italia, nelle relazioni internazionali e soprattutto nelle istituzioni europee, dove nel 2024 sarà certamente chiamato a svolgere un ruolo decisivo non solo per il nostro paese ma per l’insieme dell’Ue, come ha già fatto a Francoforte da presidente della Bce.

Dall’altro, se così stanno le cose, come chiedono con forza anche i partner europei, i numeri dei grandi elettori per la scelta del Presidente della Repubblica indicano chiaramente che né la destra né la sinistra hanno i numeri sufficienti per eleggerlo e che Matteo Renzi, che piaccia o meno, svolgerà un ruolo decisivo per la scelta del o della presidente. Molto verosimilmente una persona estranea al professionismo politico e con qualità e profilo super partes. Ma il futuro, naturalmente, è imprevedibile, sia con i sondaggi, sia senza. L’unica cosa certa è che, accanto ad un governo che fa bene, c’è oggi e chissà per quanto tempo molta confusione del sistema italiano dei partiti.

Renato Mannheimer, Pasquale Pasquino

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