Diciamola così come ci arriva: anche un solo istante di Piazzapulita, su La7, fa venire voglia di correre a Torino per abbracciare il cavallo di Nietzsche, esattamente questo. L’altra sera, galoppando tra i canali, telecomando in pugno, giunge irrefrenabile proprio questo desiderio d’Altrove, di “Umano, troppo umano”, per dirla con il Pensatore.
Conoscete la leggenda, no? È il 1889, il nostro caro filosofo risiede al 6 di via Carlo Alberto, quarto piano, una camera affacciata sulla piazza, proprio sopra l’ingresso della Galleria Subalpina.

Il 3 gennaio di quell’anno, uscendo di casa, Nietzsche si accorge di un cocchiere che ingiustificatamente sta frustando il suo cavallo. Turbato da immotivata crudeltà, si precipita a bloccare il vetturino e una volta lì davanti, in lacrime, pare abbracci e baci l’animale. Viene riaccompagnato nel suo domicilio mentre, ancora disperato, urla di essere “Dioniso” e “Gesù Crocifisso”. Vera o bugiarda che sia la leggenda, è questa l’esatta sensazione liberatoria che ho provato in prima persona facendo caso al talk. L’assenza di senso del limite personale dei presenti faceva il resto. Soprattutto, avrei voluto dire a Tomaso Montanari, collegato da remoto, di fuggire da lì subito. Anche ai lavoratori di Amazon, che raccontano la propria condizione di nuova schiavitù, avrei voluto veder fuggire. Sebbene per pochi minuti, rimarrà ancora la faccia d’occasione di Maurizio Landini, capo del sindacato dalle bandiere rosse, la Cgil. Sarà una semplice sensazione post-lisergica, eppure non si ha percezione dell’esistenza stessa del sindacato in questo frangente, nel migliore dei casi appare in surplace, come un tempo i ciclisti su pista al “Vigorelli”, ora dedicato anche al leggendario Maspes, maestro della specialità.

Subito accanto, immutabile volto, Paolo Mieli, lui che, assodatane l’ubiquità mediatica, avevamo addirittura proposto come nuovo Re d’Italia, al posto dei Savoia, e magari pure dei Borbone e degli Orléans, Mieli che accenna all’esistenza nel Paese “… di una grande sinistra” (sic), paradosso o convinzione? Su tutti, braccialetto giallo e anello da uomo di mondo, il Conduttore, già sottomesso allievo di Santoro, ma se quest’ultimo, Michele da Salerno, già maoista di “Servire il Popolo”, suggeriva, anche nei momenti di maggiore cesarismo da piazzale mediatico, l’estro di rispondere alla propria indole, in qualche modo irriducibile, l’altro, il discepolo che nel frattempo ha fatto strada aziendale, Corrado Formigli, appare invece convinto di sé nella forma dell’ambizione professionale modello base, la più ordinaria, univoca, come ogni classico presentatore di talk, orgoglioso d’avercela fatta nel palmarès capalbiese, uno Scanzi più monacale, senza gli spettacolari picchi di narcisismo feticistico del Biagio Antonacci del Fatto Quotidiano. Comunque anche Formigli, si ama molto, doverosamente ricambiato da se stesso.

Poi il volto da dolente amministratore di fabbricato di Cottarelli, ahimè, ormai scalzato dal ciclopico Draghi, capo condomino perfetto, asceso al stanza dei millesimi in tempo di pandemia. Che pena anche per lo straordinario inviato Luca Bertazzoni che il Conduttore, sadicamente, continua a sguinzagliare affinché, da uomo-rostro, placchi un insignificante Salvini. Giunga presto una pubblica petizione per salvare Bertazzoni da questo ormai usurato giogo.
Su tutti però, l’amico Tomaso Montanari, l’unico che abbia accennato al dovere del “conflitto sociale”, negato in nome della “resilienza”, affermata in un contesto dove ogni ospite sembra – ci sono! – assomigliare ai nani gnomi sgabello del designer Philippe Starck. Vengono così in mente i versi di Pasolini contenuti in una poesia, “Vittoria”, scritta nel 1964, all’indomani del varo del primo governo di centrosinistra: «Ma c’è forse, una parte dell’anima di Nenni, che vuole dire a questi compagni – venuti da laggiù…», sì, qualcosa, anche un semplice suono significante. Chissà se mai le stesse parole potrebbero essere girate a Landini.

E che strazio anche altrove, dove vige devastante la pretesa di understatement, mostrata come valore aggiunto professionale e non come conformismo doroteo antracite. Anche lì viene voglia di fuga. Tornando a Montanari, così commentava, in diretta, da Londra, su Twitter, la filosofa Caterina Nirta: «Con tanti libri alle sue spalle, possibile che debba passare il tempo tra Gruber e Formigli a dire abbasso Draghi e abbasso Salvini come un Travaglio qualunque?». Cavalli da abbracciare, ci siete, dove siete? Sì, anche uno a caso.

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Fulvio Abbate è nato nel 1956 e vive a Roma. Scrittore, tra i suoi romanzi “Zero maggio a Palermo” (1990), “Oggi è un secolo” (1992), “Dopo l’estate” (1995), “Teledurruti” (2002), “Quando è la rivoluzione” (2008), “Intanto anche dicembre è passato” (2013), "La peste nuova" (2020). E ancora, tra l'altro, ha pubblicato, “Il ministro anarchico” (2004), “Sul conformismo di sinistra” (2005), “Roma vista controvento” (2015), “LOve. Discorso generale sull'amore” (2018), "Quando c'era Pasolini" (2022). Nel 2013 ha ricevuto il Premio della satira politica di Forte dei Marmi. Teledurruti è il suo canale su YouTube. Il suo profilo Twitter @fulvioabbate