La guerra nella Striscia di Gaza si trova in una fase difficile da definire. In Israele sono tornate le proteste al valico di Kerem Shalom, quello che porta gli aiuti verso l’exclave palestinese. Ieri le Israel defense forces hanno dichiarato l’area per il passaggio dei camion come una “zona militare chiusa”, compreso il valico di Nitzana. E tra arresti (circa 18 persone) e interventi delle forze armate, 120 camion di aiuti sono riusciti a entrare nella Striscia nonostante la protesta di chi chiede che sia interrotto il flusso finché non saranno rilasciati tutti gli ostaggi nelle mani di Hamas.

L’opinione pubblica israeliana è sempre più frustrata dall’assenza di sbocchi riguardo la liberazione delle persone rapite il 7 ottobre. Il premier Benjamin Netanyahu è impegnato nel difficile compito di dover raggiungere un compromesso con Hamas (mediato da Qatar, Egitto e Stati Uniti) ma di dovere anche rendere conto a una parte della popolazione e della maggioranza contrari a cedere alle richieste palestinesi. Rispetto alle prime indiscrezioni che si sono diffuse all’inizio della settimana, ieri i media internazionali hanno dato notizia di una bozza di intesa sensibilmente differente.

Il Washington Post ha riferito che l’accordo, ancora in una fase primordiale, dovrebbe prevedere la liberazione di tutti gli ostaggi civili e un cessate il fuoco di sei settimane. Inoltre, in cambio di ogni ostaggio israeliano liberato, lo Stato ebraico rilascerebbe tre detenuti palestinesi. Sempre secondo le fonti del quotidiano statunitense, le forze armate dovrebbero poi spostarsi in aree lontane da quelle più abitate di Gaza, lasciando entrare una maggiore quantità di aiuti umanitari attraverso i valichi di frontiera. Sotto quest’ultimo aspetto, vale la pena ricordare anche il richiamo fatto ieri dal direttore delle emergenze dell’Organizzazione mondiale della sanità, Michael Ryan, che in conferenza stampa ha detto che “la popolazione sta morendo di fame, viene spinta sull’orlo del baratro e non è parte coinvolta in questo conflitto. Dovrebbe essere protetta, così come dovrebbero essere protette le loro strutture sanitarie”.

Attualmente l’intesa è ancora in fase di studio. Per i funzionari a conoscenza del negoziato sembrerebbe che a Parigi si siano concordati pure ulteriori stop alle ostilità in cambio del rilascio dei militari rapiti il 7 ottobre o dei corpi dei detenuti morti durante la prigionia. Ma su questi punti, come sui precedenti, al momento è difficile dare delle risposte definitive. Nella capitale francese si sono riuniti nei giorni scorsi il capo del Mossad, David Barnea, il vertice dello Shin Bet, Ronen Bar, il direttore della Cia, William Burns, il capo degli 007 egiziani, Abbas Kamel e il primo ministro del Qatar, Mohammed bin Abdulrahman Al Thani. Il vertice, come prevedibile, non ha avuto risultati concreti immediati.

Tuttavia da quel momento sono cominciate a rincorrersi voci di un possibile accordo, e lo stesso al Thani è volato negli Stati Uniti per incontrare il segretario di Stato Anthony Blinken, atteso per la sesta volta in Israele dall’inizio della crisi. Per Washington, come visto in queste settimane, è essenziale raggiungere il prima possibile una tregua prolungata nella Striscia. Il presidente Joe Biden ha più volte lanciato l’allarme sul timore che il conflitto tra Israele e Hamas si allarghi oltre i confini dell’exclave. Questo, almeno all’inizio, coincideva soprattutto con i timori di un’espansione della guerra in Cisgiordania, Siria e soprattutto in Libano (dove ieri le Idf sono tornate a colpire le forze di Hezbollah). Ora però, con la miscela esplosiva fatta di attacchi degli Houthi in Yemen, degli attacchi in Iraq delle milizie sciite e dell’ultimo raid che ha ucciso i tre soldati Usa in Giordania, la quesitone per Biden non riguarda più solo l’ampliamento della guerra di Israele, ma anche un coinvolgimento diretto degli Stati Uniti e dell’Iran.

Dopo la promessa di una risposta all’uccisione dei tre militari di base nella Tower 22 in Giordania, Kataib Hezbollah, la milizia filoiraniana irachena, ha annunciato “la sospensione delle nostre operazioni militari e di sicurezza contro le forze occupanti per evitare ogni imbarazzo al governo iracheno”. “Continueremo a difendere il nostro popolo nella Striscia di Gaza in altro modo”, ha proseguito la milizia. Ma il segnale giunto dai suoi comandanti è quello di evitare un ampliamento dello scontro. Il portavoce del Pentagono, Pat Ryder, aveva risposto a questo annuncio dicendo di non avere “un commento specifico da fare, se non che le azioni parlano più forte delle parole”. E restano dunque ancora in piedi gli avvertimenti lanciati dal Pentagono sul fatto che gli Stati Uniti stanno sondando diverse opzioni.

Per parte dell’Iran, ritenuto “responsabile” da Biden per l’attacco alle forze Usa, ieri ha parlato invece il rappresentante permanente presso le Nazioni Unite, Amir Saeid Iravani, il quale ha detto che il suo Paese reagirà a qualsiasi tipo di attacco ai suoi interessi. Sulla stessa lunghezza d’onda il comandante in capo dei Pasdaran, Hossein Salami: “Abbiamo sentito minacce da parte di alti funzionari americani. Vi diciamo che nessuna minaccia rimarrà senza risposta”. “Non cerchiamo una guerra, ma non la temiamo. Difendiamo noi stessi e la nostra gloria”, ha proseguito il capo dei Guardiani. E ora bisognerà capire fino a dove arriverà il gioco dell’escalation controllata da parte dell’Iran ma anche delle milizie legate agli Ayatollah.