La strategia
Guerra in Medio Oriente, Trump leader con la kippah sulla testa e la kefiah in tasca
Donald non accetterà l’annessione della West Bank da parte di Israele, come paventato da Smotrich, perché si inimicherebbe gli alleati mediorientali. Quindi da un lato garantisce Netanyahu chiamando Rubio, e dall’altro ammicca ad Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti allo scopo di contenere l’Iran
Per Donald Trump, il rebus mediorientale è particolarmente intricato. Nessuno mette in dubbio la sua amicizia con Israele dimostrata già nel primo mandato. E a confermare questa vicinanza agli interessi israeliani, è anche la scelta di Marco Rubio per il ruolo di segretario di Stato. Colui che dopo il 7 ottobre disse che lo Stato ebraico “non aveva scelta se non quella di sradicare Hamas da Gaza” e che anche per quanto riguarda il Libano, ancora prima dell’escalation sul fronte nord, disse che Israele aveva “l’imperativo” di “portare avanti una guerra su larga scala a Hezbollah, che militarmente è anche più pericolosa e distruttiva”. Tutto fa credere che la corrispondenza di amorosi sensi tra The Donald e Benjamin Netanyahu continui. Tuttavia, se la linea pro-Israele di Trump è chiara, c’è da tenere presente un altro fattore, altrettanto decisivo nell’agenda regionale del tycoon: i partner arabi.
Il repubblicano è amico dello Stato ebraico, ma conosce perfettamente l’importanza degli altri Paesi della regione, specialmente le monarchie del Golfo. Del resto, il primo viaggio di Trump all’estero durante il primo mandato fu proprio in Arabia Saudita. E quegli Stati hanno un’importanza fondamentale negli equilibri energetici mondiali, così come possono essere una leva particolarmente utile anche nel frenare l’Iran senza costringere Washington a un costante sforzo bellico. Insomma, Trump ha bisogno anche dei Paesi arabi. E non solo di Israele. E sa anche che qualsiasi accordo di pace passa inevitabilmente per il placet di chi è più influente nella regione e nei vari scenari di crisi.
Il tema, come ha rivelato il Times of Israel, è stato sollevato da alcuni ex consiglieri dello stesso The Donald ad alcuni alti funzionari israeliani. Secondo il media ebraico, infatti, due figure della precedente amministrazione Trump hanno avvertito i ministri israeliani di non dare per scontato il sostegno del presidente Usa all’annessione degli insediamenti in Cisgiordania. Ipotesi di rottura che era stata invece paventata nei giorni scorsi dal ministro delle Finanze (di ultradestra) Bezalel Smotrich, che non ha mai nascosto di avere posizioni oltranziste e nettamente diverse non solo dal governo di Joe Biden ma anche della maggior parte della comunità internazionale. Il concetto espresso dagli ex funzionari vicini a Trump è molto semplice. Una mossa come quella proposta dagli alleati più radicali di Netanyahu incontrerebbe una forte opposizione da parte degli alleati degli Stati Uniti nel Golfo, in primis Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. E quei partner servono non solo per opporsi all’Iran (con cui ieri si è infiammato di nuovo anche il fronte yemenita) ma anche per frenare la Cina e dialogare con la Russia.
The Donald non può permettersi passi falsi. E l’atavica diffidenza tra petromonarchie e Stato ebraico di certo non lo aiuta. Già dal vertice della Lega Araba e dell’Organizzazione della cooperazione islamica a Riad sono arrivati segnali netti sul potenziale scontro tra sauditi e israeliani. Il principe ereditario saudita, Mohammed bin Salman, ha esortato Israele a “interrompere il massacro commesso ai danni dei palestinesi e dei libanesi” e ha persino chiesto al governo Netanyahu di “rispettare la sovranità della sorella Repubblica islamica dell’Iran e a non violare le sue terre”. Parole rivoluzionarie visto che Riad e Teheran hanno avuto per molti anni dei contrasti profondi per la guida della regione. Mbs ha poi incontrato a porte chiuse il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, che da tempo ha assunto una posizione di forte contrasto nei riguardi della politica israeliana su Gaza. E se Trump vuole arrivare a un accordo che congeli il conflitto nella regione, ereditando gli sforzi del suo predecessore, non può fare a meno anche di questi Paesi. In Libano, lo Stato ebraico sembra intenzionato ad andare avanti contro Hezbollah (con i raid che hanno di nuovo colpito Beirut e la parte meridionale del Paese), anche se Joe Biden, definito ieri da Isaac Herzog “un incredibile amico di Israele” ha lavorato fino all’ultimo per un accordo.
E il suo inviato, Amos Hochstein, anche ieri ha ribadito di avere la massima fiducia in una prossima soluzione diplomatica. Nella Striscia, la morte di altri quattro soldati dell’Idf nel nord conferma che la situazione sul campo di battaglia non è affatto semplice. E mentre Hamas cerca casa dopo l’ordine di lasciare il Qatar (si parla di Iran o Turchia come future basi dell’ufficio politico), qualcuno inizia anche a parlare del dopoguerra. La milizia e Fatah, secondo il Wall Street Journal, avrebbero trovato l’accordo per un comitato apolitico che controlli Gaza dopo il conflitto. Un gruppo di “tecnocrati” senza alcuna affiliazione che supervisione la distribuzione degli aiuti e la ricostruzione. Su Channel 12, in questi giorni, era apparso anche un piano proposto dall’amministrazione Biden allo stesso Abu Mazen per il futuro della questione palestinese. Un piano in diversi punti che prevede il necessario coinvolgimento di alcuni “Stati partner”. E se Trump vuole prendere in mano il dossier per guidare questo difficile percorso di pace, ha bisogno di tutti: di Israele, dell’Autorità nazionale palestinese e degli alleati arabi degli Usa, dall’Egitto al Golfo. E forse anche di Mosca.
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