Dopo due e mesi e mezzo di conflitto e con le pressioni internazionali e interne che aumentano, Israele e Hamas tentano di nuovo la via del negoziato. Dopo il fallimento della tregua di novembre – finita dopo che l’esecutivo israeliano ha denunciato il mancato rispetto dell’accordo da parte di Hamas – l’intelligence e la diplomazia internazionali si sono rimesse in moto, con gli Stati Uniti a fare da grandi sponsor per un nuovo negoziato. La prima svolta è stata il doppio contatto tra i servizi segreti del Qatar e il Mossad, prima a Oslo e poi a Varsavia (in quest’ultimo caso si è unito anche il direttore della Cia). Poi c’è stato il viaggio in Israele del segretario alla Difesa statunitense, Lloyd Austin, che ha fatto intendere che il sostegno per lo Stato ebraico non precludeva l’attenzione al tema umanitario né alla richiesta di abbassare l’intensità del conflitto.

L’arrivo di Ismail Haniyeh

Nella giornata di ieri si è poi avuta la notizia dello sbarco al Cairo, in Egitto, del leader di Hamas, Ismail Haniyeh, per negoziare una nuova possibile tregua. Gli indizi non mancano, come la dichiarazione di due giorni del presidente israeliano, Isaac Herzog, il quale aveva ammesso che era possibile raggiungere un’intesa con Hamas per gli ostaggi, e che fosse proprio la sigla palestinese ad avere la piena responsabilità della decisione di raggiungere un nuovo accordo. Questa possibilità di negoziati nasce in larga parte per le pressioni sia interne che internazionali. La guerra nella Striscia di Gaza, infatti, oltre a essere diventata un pericoloso interruttore di crisi regionali, come dimostra anche la nascita della operazione Prosperity Guardian per frenare gli Houthi in Yemen, è diventata anche un problema per la politica israeliana. Il ministro della Difesa, Yoav Gallant, ha più volte sottolineato che il conflitto con Hamas potrebbe durare mesi. Tuttavia, molti analisti hanno posto l’accento sulle difficoltà di mantenere un’operazione militare per un così lungo periodo. E questo sia per le drammatiche condizioni della popolazione della Striscia, sia per il peso sul sistema israeliano. Questo aspetto è stato sottolineato anche da un articolo di David Ignatius sul Washington Post, in cui è stato rilevato come vi siano diverse questioni aperte all’interno di Israele per giungere a un una nuova fase del conflitto.

Gli obiettivi

La prima è la necessità dello Stato ebraico di riavere quelle centinaia di migliaia di riservisti che sono stati impiegati nella guerra. “I leader israeliani sanno che devono spostarsi ad una nuova fase del conflitto, anche solo per permettere ai riservisti di lasciare il fronte e tornare a fare i loro lavori” scrive Ignatius. Inoltre, la confusione dei piani israeliani sul futuro del conflitto fa temere a Washington che la cosa possa protrarsi troppo, compromettendo anche il futuro dell’exclave palestinese nel dopoguerra. L’obiettivo, secondo il Washington Pst, è di arrivare a una tregua e a una graduale riduzione del conflitto già nelle prossime settimane a partire da un ritiro dal nord di Gaza. E lo dimostrerebbero anche i nuovi colloqui per gli ostaggi. A questo proposito, i recenti video delle persone sequestrate dai terroristi rappresentano terrificanti leve negoziali di Hamas e Jihad islamico palestinese per premere sull’opinione pubblica. A confermare il pressing Usa, dopo i viaggi del consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan e di Austin, sono arrivate anche le dichiarazioni del segretario di Stato, Anthony Blinken. Per il capo della diplomazia Usa, è una “priorità assoluta” che il conflitto finisca “il più rapidamente possibile” e “Stati Uniti e Israele vogliono un accordo per una nuova pausa dei combattimenti che consenta il rilascio degli ostaggi”. Resta però il nodo Hamas, che a detta di Blinken deve essere ancora sciolto. Il capo del governo israeliano, Benjamin Netanyahu, ieri è stato chiaro: “La guerra continuerà fino a che Hamas non verrà eliminato, fino alla vittoria. Chi pensa che ci fermeremo, non è collegato alla realtà”.