Israele non pensa, almeno ufficialmente a sospendere o chiudere la guerra contro Hamas. Gli americani in particolare insistono con un genere di pressioni mai usate finora con gli israeliani, e cioè sanzionando coloroche  approfittano del caos per insediarsi nel West Bank palestinese comportandosi spesso in modo apertamente nemico e spesso violento: sono finora più di trecento i palestinesi del West Bank morti per scontri con i civili israeliani e fra questi alcuni assassinati per rappresaglia dopo le mostruose stragi e stupri e infanticidi del 7 ottobre. E il presidente Biden che vede scemare le sue fortune elettorali cerca come può di spegnere le due opposte indignazioni fra gli americani che parteggiano apertamente per Hamas o per Israele.

Lo scambio di prigionieri e le parole di Netanyahu

Gli abitanti del West Bank diffondono via social e i giornali la sofferenza delle loro vite, con gli orari sempre più ristretti dei check point per andare a lavorare in Israele dove devono affrontare rapporti umani sempre più ostili. Pochi i progressi del Qatar per arrivare uno scambio di prigionieri palestinesi contro il rilascio di donne e bambini rapiti che, a questo punto, Hamas considera la più preziosa merce di scambio di cui disponga man mano che salta la rete dei tunnel attaccata dagli ingegneri dell’Idf che sacrifica molte vite per questa operazione. Benjamin Netanyahu in una intervista televisiva al filosofo e giornalista britannico Douglas Murray, ha ripetuto che Israele non lascerà Gaza prima di avere estirpato Hamas e, quanto agli Hezbollah che dal Libano minacciano la guerra contro Israele, dice di non temerli: “Sovrastimano le loro forze e sottostimano le nostre”. Tuttavia, Netanyahu non è in grado di dire in che modo pensi di salvare gli ostaggi senza rinunciare all’eliminazione totale di Hamas. Ma è evidente, e lo notano tutti gli osservatori sul terreno, che se peggiora il clima politico e delle parole, il clima sotterraneo e invisibile degli incontri a Doha tra plenipotenziari di Hamas, Israele, Arabia Saudita, Stati Uniti e con molti filtri, persino l’Iran, non sia poi così pessimo: ogni settimana viene3 dato per raggiunto un accordo che poi salta, ma si tratta di avvicinamenti, accomodamenti e rinunce che si giocano su tavoli in cui i belligeranti non si incontrano perché parlano soltanto gli intermediari.

Il punto USA

Nella situazione più scomoda sono gli americani i quali, pur avendo in mare una potenza militare gigantesca, stringono i denti e mediano e danno spesso torto a Israele ed è la prima volta che si sentono obbligati ad una politica equidistante perché anche se esistesse la leggendaria “lobby ebraica” americana, oggi è cambiato tutto: fra i potenziali elettori di Biden del Partito ci sono ebrei profondamente divisi tra quelli di sinistra – sostanzialmente filopalestinesi – e gli ortodossi che non riconoscono neppure lo Stato di Israele. E semmai, per la prima volta è un elemento davvero potente ed è la lobby arabo-americana: milioni di elettori che non sono affatto sicuri di voler votare Biden, disgustati per il sostegno ad Israele mentre bombarda Gaza.

Le mosse di Stati Uniti e Regno Unito

Stando alle parole del primo ministro israeliano (che ha ritrovato una coesione di governo che sarebbe stata inimmaginabile quattro mesi fa) il governo starebbe per sacrificare gli ostaggi e la sola idea provoca una nuova frattura nella società israeliana tra il partito che vuole gli ostaggi liberi a qualsiasi condizione è diventato una forza politica, e la destra che non vorrebbe ostacoli nella sua operazione. Ma poiché la politica e la guerra provocano sempre insanguinate simmetrie, ecco comparire in Israele picchetti di giovani con la bandiera nazionale reclamano la distruzione radicale del nemico. Ieri si sono diffuse voci diplomatiche secondo cui l’Arabia Saudita non ritiene di doversi sentire ulteriormente immobilizzata per la guerra a Gaza e che anzi vuole che si sappia che gli “Accordi di Abramo” (una quasi fusione fra il dinamismo economico e tecnologico israeliano con quello Saudita) sono vivi e che Riyad è pronta a riprendere da là dove si era arrivati il 6 ottobre alla vigilia delle infami stragi di Hamas. Quindi abbiamo da una parte il governo democratico della Casa Bianca paralizzato fra i suoi elettori filoarabi e filoisraeliani con una diplomazia frenetica ma inconcludente, che cerca di tenere uniti i pezzi di un mosaico sbriciolato. Stati Uniti e Regno Unito stanno calcolando quale può essere la più forte risposta militare all’uccisione di tre soldati americani in Giordania colpiti da un missile partito dalla Siria, senza spingersi più avanti nel rischio di guerra con l’Iran. Il segretario di Stato Antony Blinken, alla domanda di una televisione che chiedeva di sapere se secondo lui L’Iran vuole davvero la guerra, ha risposto con un breve no. Gli Stati Uniti stanno mantenendo un profilo bassissimo.

Le voci dal Qatar

Tutto si dimentica in fretta ed ecco che anche l’agenzia delle Nazioni unite messa sotto accusa perché alcuni suoi impiegati avrebbero materialmente preso parte al massacro perpetrato da Hamas il 7 ottobre scorso, dopo aver licenziato i dipendenti accusati, cerca di riguadagnare la dignità perduta distribuendo sacchi di farina tranquilli accumulati con l’arrivo dei camion durante la prima parte della guerra. Gli ufficiali dell’esercito israeliano, purché in condizioni di anonimato, parlano molto volentieri della loro volontà di attaccare Hamas fino in fondo per sradicarlo e di installare a Gaza un regime provvisorio militare israeliano finché non sarà trovata una transizione con l’autorità nazionale palestinese: “Stiamo chiudendo a Khan Younis nel nord della striscia, e andiamo dritti fino a Rafah ammazzandoli tutti ad uno ad uno” ha detto il ministro della Difesa israeliano Gallant. Eppure, mentre il ministro pronunciava parole tanto determinate, da giovedì sono riprese a circolare le voci di un possibile accordo per una tregua di cui Hamas ha assolutamente bisogno. Le voci arrivano attraverso il Qatar e sono confuse e contraddittorie, ma l’unica cosa certa è che i canali della comunicazione restano aperti e che Israele potrebbe trovarsi costretto a negoziare se aumentassero in intensità, i tumulti del “partito degli ostaggi” che è visto da Likud, religioso e di estrema destra, come un partito di atei di sinistra, puniti da Dio, oltre che da Hamas.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.